1 conversazione con me stesso
Non me ne voglia il filosofo Alan Watts se per questo articolo ho pensato di sgraffignare il titolo da un suo famoso discorso, la mia è stata giusto una scelta per colorare questa personale raccolta di riflessioni.
Occhio che il titolo non vuol essere fuorviante: quel “con me stesso” non implica assolutamente che quanto segue possa essere letto o compreso solo dal sottoscritto, ma indica piuttosto la volontà di esternare quanto più possibile una risonanza personale, tirando le somme di un percorso interiore.
Come direbbe Steven Wright: «Parlo spesso con me stesso, ma questo infastidisce gli altri perché uso un megafono».
Voglio dunque cominciare dal lavoro.
Ho sempre mal sopportato la domanda «Cosa vuoi fare da grande?», rivolgerla ai bambini dovrebbe essere vietato per legge.
È un quesito da adulti che annulla subliminalmente lo spettacolare marasma di sfumature che si vivono in quella manciata di anni che collegano l’infanzia all’età adulta.
Quando mi veniva posta, ai tempi in cui andavo alla scuola materna, rispondevo di proposito le professioni più assurde. Oggi, probabilmente, farei lo stesso.
Per me tutti i lavori potrebbero essere suddivisi in due macro-categorie: quelli utili e quelli inutili. Di quelli utili occupano un posto privilegiato quei lavori che perpetuano la missione alla base dell’esistenza umana di essere parte di un meccanismo che va al di là della nostra comprensione e che si fonda sull’altruismo e il supporto reciproco.
La politica è una barca che ho lasciato alla deriva.
A guardarla bene, altro non è che sport e tifo da stadio.
Al di là di ciò che viene detto e fatto dagli esponenti politici, tutti i partiti hanno (o nascondono) in fondo gli stessi obiettivi, varia la misura in cui queste cose vengono desiderate: potere, soldi, privilegi, posti chiave, o semplicemente visibilità e apparizioni in tv. Se manca il desiderio di tutte queste cose c’è comunque una brama di apparire come santoni agli occhi del popolo.
Una delle matrici della distorsione della nostra società è l’idea che questi desideri siano alla base dell’animo umano, e che debbano essere perseguiti da tutti.
L’unico modo che abbiamo per esorcizzare la politica, ovvero per sfuggire a quello che è un sistema chiuso dove chi non vota fa quasi più danni di chi vota e dove i complottisti e gli anti-complottisti gareggiano in ridicolaggine e irritabilità, è quello di giocarci, prendendola in giro senza risparmiare sulla creatività.
Riguardo il potere, e qui non mi riferisco solo a quello politico, la menzogna sta nel convincerci che chi oggi ha poco debba accettare la propria condizione, mentre chi ha molto debba essere lasciato libero di desiderare ancora di più.
Se l’essere umano si abituasse ad accontentarsi del giusto al posto di pretendere sempre qualcosa in più, avverrebbe una delle più grandi rivoluzioni della storia.
Per citare Pico della Mirandola, siamo perennemente in bilico tra l’essere bestie e l’essere angeli.
Divenire angeli ci risulta troppo faticoso mentre l’essere bestie ci viene male. Pur essendo un animale (sociale), infatti, l’essere umano rappresenta uno di quei rarissimi esempi di animale che combatte, anche fino a uccidere, membri della sua stessa specie.
Invece di fare gruppo per cercre di perpetuare una propria armonia nei all’interno della natura (armonia fatta indubbiamente anche di dominio e protezione nei confronti delle altre componenti della natura stessa), l’essere umano sceglie deliberatamente di complicarsi l’esistenza e creare gerarchie all’interno della sua stessa specie, costruite però non su basi naturali, ma su valori artificiali che risultano falsati, erronei, offensivi o futili: ricchezza, background, differenze etnico-geografiche, status.
La natura, di cui facciamo parte, è un sistema perfettamente interconnesso. L’artificialità delle gerarchie umane è spesso talmente evidente, ridicola e fragile, da rendere facilmente comprensibile come mai risulti così soddisfacente, per quanto rischioso, poter puntare il dito e dire che il Re è nudo.
È importante sempre distinguere tra eterna infanzia ed eterno infantilismo. Di adulti infantili ne vediamo sempre tantissimi nella nostra società, per le strade o anche solo accendendo la televisione. Essere un adulto infantile vuol dire guardare il mondo con le lenti dell’egocentrismo, del capriccio, del lusso. L’infantile da piccolo urla per avere giocattoli, da adulto lo fa per avere soldi, potere, attenzioni; col crescere i suoi capricci diventano ordini.
Essere un adulto bambino, invece, contrariamente a quanto vuole oggi il pensiero comune, non è necessariamente indice di ingenuità, di inesperienza o di debolezza, ma vuol dire vivere il mondo attraverso gli occhi della curiosità, dell’altruismo disinteressato, del gioco, della creatività.
Il senso della vita non dovrebbe essere quello di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, ma quello di vivere ogni giorno come se fosse il primo: quando ogni cosa era nuova e motivo di scoperta e stupore, quando il pensiero principale era crescere, non arrovellarsi sul cosa farsene della propria crescita.