1 recensione su Carrie Pilby
Per la maggior parte dei lettori un libro è quasi sempre meglio dell’eventuale film o serie tv che ne viene tratto ma, talvolta, capita che si scopra prima il prodotto filmico e poi il libro, dando vita a un desiderio di confronto al contrario. Carrie Pilby, lungometraggio tratto da Lo strano mondo di Carrie Pilby di Caren Lissner (2003), è uno di questi. La pellicola del 2016 diretta da Susan Johnson si lascia guardare con grande piacere, riuscendo a trasmettere messaggi importanti senza perdere leggerezza e ironia. È la stessa protagonista che, nonostante un carattere non facile e una rigidità talvolta difficile da comprendere, riesce a entrare nel cuore dello spettatore, spingendolo a desiderarne ancora, a scoprire la sua versione originale per una conoscenza più approfondita. Le differenze libro-film sono impossibili da evitare: trattandosi di due media con funzionalità, scopi e strategie emotive diverse non si può pretendere che i due prodotti siano sovrapponibili, senza contare la differenza di visione tra scrittore e regista/produttore. Nel caso di questa geniale diciannovenne però pesano un po’ di più, risulta più difficile ignorare e giustificare lo scarto tra i due. Il tutto rientra sempre in una questione soggettiva, quindi ecco 1 recensione su Carrie Pilby, la mia.
Il pensiero di Carrie
Carrie Pilby è una ragazza superdotata che per il suo quoziente intellettivo fuori dal comune ha saltato tre classi durante le elementari e a sedici anni era già iscritta ad Harvard, convinta dal padre di avere la possibilità di frequentare qualcuno alla sua altezza. Così non è, infatti il cinismo della ragazza si incupisce sempre più, fino a renderla un pungente bozzolo di ironia e pessimismo. Per lei la maggior parte delle persone sulla terra sono ipocrite, quindi passa le sue giornate a lamentarsi, procrastinare qualsiasi azione le comporti di socializzare, fruire contenuti culturali impegnati. Una personalità come questa è impegnativa, si fa sentire, ma tra libro e film c’è comunque una forte differenza. La Carrie del film sa essere antipatica e capricciosa, rigida nelle proprie posizioni, ma tutto sommato riconoscibile; quella del libro è più prolissa nei pensieri, meno definitiva nelle sentenze, ma anche un po’ ambigua. Sono entrambe due ragazze in via di maturazione ma il processo stesso si articola diversamente. Per empatizzare con un personaggio, sia esso filmico o libresco, abbiamo bisogno di “sentirlo” per poterci identificare e, volendo essere il più onesti possibile, è forse più possibile identificarci con una persona capricciosa che non con una più “accondiscendente”: la prima è definita, la seconda no.
Le relazioni di Carrie
Le relazioni affettive della sua vita sono alquanto peculiari. La madre è morta quando lei era molto piccola e il padre, che per lavoro viaggia molto, la vede poco pur cercando di essere presente nella sua vita tramite telefonate e mantenimento di psicologo, appartamento newyorkese e vita della figlia. Nel film è molto chiaro come queste mancanze facciano soffrire Carrie, soprattutto l’assenza della madre; nel libro è piuttosto diverso. È palese che la lontananza del padre sia un peso per questa ragazza così rigida e sensibile ma, a mio parere, è solo nel film che questa assume una risonanza più ampia, probabilmente aiutata dall’imminente secondo matrimonio del padre che nel libro è inesistente.
La questione della madre è ancor più delicata: nel libro si viene a sapere della sua fine e dell’importanza che ricopre nella vita della ragazza solo a metà storia e, inoltre, senza che le venga dedicato molto spazio in seguito. Nel film, pur non comparendo, rappresenta uno dei fili conduttori della vita e della psiche di Carrie, amplificata anche dalla presenza del libro Franny e Zooey. Trattandosi del libro preferito della ragazza, reso ancora più prezioso dal fatto che la madre prima di morire le avesse regalato la prima edizione, assume un forte potere collante nella narrazione. È la prova tangibile del legame con la madre, nonché del suo primo approccio con un uomo, il professor Harrison, che nasce, si sviluppa e si chiude grazie a questo libro. Neppure il padre ne è estraneo: dopo una litigata con la figlia deciderà di aiutarla a recuperare il volume e a chiudere in modo definitivo la parentesi con Harrison. Nel libro tutto ciò non esiste e, a livello strutturale, non se ne sente la mancanza, ma per chi come me ha visto prima il film non può non notarla. È una carica emotiva in meno che viene sottratta alla potenza della storia.
Altre relazioni da tenere in conto sono quella col suo psicologo, con i colleghi di lavoro e CY. I primi due sono stati illustrati in modo piuttosto simile, identico nelle battute a tratti, mentre per quanto riguarda CY la situazione è più complessa. In entrambe le versioni della storia, CY fa la sua comparsa all’improvviso, quasi in punta di piedi, comparendo e scomparendo di tanto in tanto. La differenza fondamentale è che mentre nel libro queste sue comparse improvvise paiono avere sempre un senso, nel libro non è così, si ha più l’impressione di una comparsa casuale. La vita è, in parte, un insieme di casualità, ma dopo aver assistito alla visione cinematografica dei loro incontri quella del libro è un po’ scarna. A ulteriore conferma di ciò sta il fatto che CY è il traguardo di un percorso: spinta dal suo psicologo conosce vari ragazzi, tra cui uno in procinto di sposarsi, e mentre nel film è evidente la differenza tra i due e la crescita di Carrie nel riconoscerlo, nel libro sa ancora troppo di improvvisato, di mancanza di spessore.
Ho scoperto la geniale signorina Pilby per caso, in una sera in cui ero troppo stanca per un film impegnativo ma non avevo voglia di dormire, e mi ha folgorata.
Ho cercato la sua versione cartacea con insistenza e ne sono rimasta delusa.
Lezione n.1: non sempre il libro è meglio del film.
Lezione n.2: chi cerca trova… se tutto va bene.