1 sinfonia post mortem, ovvero anatomia delle note musicali
Siamo noi. Le note musicali sono esattamente come le persone: particelle infinitesimali che tentano in ogni modo di essere parte di una sinfonia capace di vincere il tempo. Gli esseri umani sono note musicali: piccoli, incompleti, vibranti, effimeri, perfetti, eterni, in costante attesa. Così come ogni nota è nata prima della sua stessa nascita, così ogni individuo è un’invenzione (di se stesso, degli altri, degli eventi, ecc.). È così: siamo lo specchio e il riflesso che contiene, siamo sole e orizzonte. Questo cantano le note musicali. Ci ricordano a ogni battito che siamo parte di una composizione in costante divenire, che siamo tessera e mosaico. Ci dicono che l’inesistente esiste, che l’oltre è la sola dimensione abitabile, che la poesia è l’unico modo per essere e tessere (esistenze, possibilità, infiniti). Siamo musica. Perché le persone sono come le note musicali: da sole non significano niente, hanno senso e diventano belle solo se si mettono insieme.
Ecco la mia sinfonia.
Do. Secondo le più recenti tendenze storiografiche, Do si ritiene sia nato per puro caso intorno alle metà degli anni a venire. La sua è stata un’infanzia difficile, perché vessato dai bulbi: i suoi occhi erano in continua protesta perché odiavano qualsiasi forma di paesaggio. Fu così che decise di vivere tenendo gli occhi chiusi (in un cassetto, accanto al sogno di avere degli occhiali) e le mani aperte verso il prossimo, perché la sua vera vocazione era la generosità. Per quanto concerne quest’ultimo punto, esistono due scuole di pensiero che dividono gli storici: alcuni sostengono che il suo interesse nei confronti degli altri fosse sincero in quanto desiderio coltivato negli anni in cui è stato vittima di bulbismo; altri invece ritengono che il tutto sia soltanto il frutto di una fatale incomprensione dovuta al bisogno di Do di affermare la propria identità quando, riposti gli occhi nel cassetto, uscì per strada gridando «Io Do, io Do!» (probabilmente è in un questo periodo che gli venne dato il soprannome di Offro). A ogni modo, si spogliò di tutti i suoi averi, cioè un cappello immaginario e un mercoledì pomeriggio, e intraprese la strada della generosità: il suo scopo era, o divenne, quello di aiutare gli altri. In particolare, Do leggeva i libri per i non vedenti, ascoltava musica per i non udenti e mangiava la pizza per i non gustanti. La sua attività di buona nota divenne una nota buona del suo curriculum, al punto da portarlo alla ribalta (od). La sua opera di bontà conobbe un notevole successo, la sua storia di dolore e riscatto commosse l’opinione (che) pubblica; ci fu addirittura una famiglia che chiese di poterlo adottare: dopo lunghe vicissitudini, il signore e la signora Di Petto diedero a Do un cognome e una casa. A questo punto della sua vita, quando credeva che finalmente tutto avesse trovato un equilibrio stabile e duraturo, Do fu scosso da un tragico evento: i suoi nuovi genitori furono arrestati dalla polizia pentagrammata per spaccio di semitoni. Lo sconforto e la tristezza presero il sopravvento gelido che soffiava da tutte le parti. Ma Do aveva le idee chiare, purtroppo però anche lo sfondo della sua mente era chiaro, quindi non riusciva a metterle a fuoco. Solo, senza casa, con anni di bontà alle spalle che gli avevano tolto tutto, Do non vedeva alcuna soluzione (infatti aveva sempre gli occhi nel cassetto). Una notte di pioggia e di neve, si mise a correre sul filo del discorso, ma gli mancarono le parole. Tutto era silenzio e ogni cosa era fatta di buio, non c’era altro che oscurità. Pensava a questo mentre si lanciava nel vuoto.
Re. Le origini di Re risalgono lungo il fiume delle dinastie imperiali. I suoi genitori provenivano da nobili casati: suo padre era il sultano delle ottave, mentre sua madre era la regina dei sorrisi, misura della battuta. L’infanzia di Re è stata agiata e serena, senza alcun tipo di problema. Tutto scorreva tranquillo: passava il tempo giocando col suo amico Cembalo detto Clavi, ballava con le dame, cantava con gli scacchi, leggeva i libri dell’orrore di uno scrittore suo omonimo. Un giorno, per la precisione all’improvviso, la serenità della sua vita fu scossa da un’inaspettata dichiarazione di guerra da parte del confinante regno delle parole sdrucciolo-tronche, governante dal principe Piccolo Così. Il pacifico mondo di Re fu in poco tempo devastato dalla furia delle parole: futuro, indolenza, non fare, fare, amministrare, sportello, le faremo sapere, come stai, tutto bene, è sempre stato così e dio. Non si salvò nulla. Re perse ogni cosa, compresi i genitori, l’armatura di chiave e tutti i propositi. Fece fagotto e andò a vivere all’ombra di un albero di diesis. Nessuno voleva più aver a che fare con Re, al quale venne dato il soprannome di Ietto. Cominciò a girovagare per la nazione, in cerca di un nuovo inizio. Cercò fortuna nel mondo del circo, infatti si scoprì tagliato per il lancio dei coltelli. Si unì quindi a una compagnia di girovaghi con cui vagogirò in corto e in stretto. Aveva trovato un nuovo inizio. Riusciva anche a dormire senza incubi. Re era rinato, fu per questo che gli fu dato un nuovo soprannome: Agito. La compagnia circense, che iniziò a conoscere un discreto successo grazie soprattutto alle taglienti esibizioni di Re, diede il via a un importante tour, le cui tappe comprendevano i principali luoghi dell’intera nazione. Non potevano mancare, dunque, anche tutti i reami. Re fu catapultato così al centro della corte del regno sdrucciolo-tronco, che aveva soppiantato quello musico-ludico dei suoi genitori. Piccolo Così sedeva sul suo trono insieme alla famiglia e ai cortigiani, in attesa di ammirare le famose gesta del lanciatore di coltelli di cui aveva tanto sentito parlare. Tutti sorridevano: il popolo venuto ad assistere, i suoi colleghi, i regnanti. Tranne Re. Gli correvano nella mente le immagini di quei giorni di guerra cieca, il dolore, la furia delle parole. Gli occhi di sua madre che si spengono, le mani di suo padre che chiedono aiuto. Tutti lo guardavano. Piccolo Così gli era seduto di fronte, con aria divertita. Re impugnava il coltello. Sognava di vendicare la sua famiglia. Guardava la gola dell’imperatore. Vicino a lui c’era suo figlio. Allora capì cosa fare. Guardò in cielo, c’erano nuvole, disegni di luce, i giorni felici, mondi perfetti, colori da scoprire. Pensava a questo mentre con la lama del coltello si incideva i polsi.
Mi. La notte in cui nacque Mi era del tutto inventata. Non aveva famiglia, non aveva amici, non aveva dimensioni, non aveva luoghi. Esisteva soltanto lei. A quel tempo, i colori non erano stati ancora disegnati, i lati vivevano liberi dalla prigionia delle figure e il suono era soltanto la distanza tra due silenzi. Tutto era di Mi, e Mi era la misura di tutto. Era felice. Giocava a nascondito con la sua mano, rincorreva i passi, solfeggiava qualsiasi cosa le capitasse a tiro (ma solo per poter camminare sulle scie degli occhi inevitabili). Mi piaceva, a tutti, anche se non c’era nessuno. Mi toccava, qualsiasi cosa, perché esisteva ogni cosa potesse esistere. Il mondo era una realtà meravigliosa, al punto che sognare non aveva alcun significato. C’era tutto ciò che era, e Mi era dea e idea, l’esistenza si modellava intorno ai suoi desideri. Il cielo era fatto di cieli, ed erano sempre limpidi, stellati anche di mattina, puliti, sconfinati. Fu per questo che quella mattina di tutte le stagioni non può essere dimenticata. Mi vide comparire tra le nuvole una nube spaventosa a forma di mano, che iniziò ad afferrare prima le stelle, una a una, poi i giorni, la traiettorie del pensiero, i momenti, le intenzioni, i limiti, le definizioni. Mi era terrorizzata, iniziò a piangere, e le lacrime diventavano pezzi di vetro che devastavano guance, progetti e immaginazione. Non capiva cosa accadesse al mondo, il suo meraviglioso mondo. Stava scomparendo tutto. In alto, se alzava la sguardo, c’era solo nero. Sotto c’era ancora qualcosa che aveva colore (ma con evidenti segni di buio), ma sopra-no (perché c’erano acuti di morte in ogni mentre). Disperata, Mi si diede alla macchia, ma anche lei lo rifiutò. Allora cercò riparo in un ricordo, ma il passato aveva già cessato di nascere. C’erano solo tombe, quindi smise di correre – anche perché il suolo era deflagrato in un miliardo di foglie del Nulla. Il vento soffiava incessante, copriva ogni forma di forma, non c’era altro. Ma nella sua eco, Mi riusciva a scorgere un suono, sembrava una voce. Tese l’orecchio, cercando di ascoltare. La voce arrivò gelida e assassina. «Signori Mi, sono lieto di informarvi che la nuova cura sta cominciando a dare i primi risultati. La malattia mentale di vostra figlia presto potrà essere controllata e, con tempo e cure continue, forse addirittura cancellata. Sicuramente avrete già notato che lo stato di confusione in cui ha sempre vissuto sta cominciando a vacillare: la realtà sta finalmente facendo breccia nella sua mente. Vedrete, non sarà più suonata. Presto le allucinazioni e le immagini che hanno popolato il suo cervello fin dalla nascita spariranno, per lasciare posto alla vita vera. Siate fiduciosi, vostra figlia Mi avrà una vita lunga, felice e soprattutto normale». Il vento si placò. Mi era seduta sui resti del suo mondo. Quella gelida eco ancora risuonava nei suoi pensieri. Guardò il cielo inesistente e nero, presto sarebbe sorto il sole della vita vera, avrebbe conosciuto lo scorrere del tempo, sarebbe stata come gli altri. Accennò un sorriso. Un cielo stellato di un mattino infinito. Pensava a questo mentre appoggiava una canna di pistola alla tempia.
Fa. Era un anonimo pomeriggio di un autunno qualunque, il giorno in cui Fa fu abbandonato sulla soglia dell’orfanotrofio “Figli di Cluster”. La sua vita è iniziata così, con una fine. Tuttavia, cioè un’intera strada, gli anni della sua gioventù non furono del tutto drammatici, infatti Fa trovò molti amici tra gli orfani. C’erano Aksak, che aveva problemi a una gamba; Hemiolia, che stava sempre in gruppo; Palm muting, che non parlava quasi mai; e il suo migliore amico, Quodlibet. Insieme a loro, Fa passava le giornate a dipingere le pareti e disegnare sui muti, i quali non dissero mai di no. Eppure, i momenti di sconforto non mancavano, dato che le sorelle che gestivano l’orfanotrofio (no, non erano suore, erano proprio sorelle, ndr) impartivano spesso ordini a tutti gli orfani, dicendo «Fa’ questo, fa’ quello!», ma siccome i verbi non erano ancora stati inventati, tutte le mansioni venivano svolte da Fa. I momenti di gioia diventavano sempre meno col trascorrere degli anni, così decise di lasciare l’orfanotrofio appena avesse compiuto la maggiore età. I suoi amici lo implorarono di restare, ma lui non volle sentire ragioni: divenuta Fa maggiore, andò via sbattendo la porta (letteralmente, infatti la serratura si danneggiò in maniera irreparabile). Il nuovo capitolo della sua vita comincia quindi con un nuovo abbandono. Povero e senza meta, Fa non sapeva cosa fare. Giunto in un paese poco lontano, cercò un impiego e lo trovò presso la bottega di un barbiere. Il suo lavoro era vice sostituto assistente barbiere, infatti lui era il quarto del gruppo, per questo gli venne dato il soprannome Barbiere D (se veglia, perché da dormiente perdeva il diritto ad avere soprannomi). Il primo giorno di lavoro era il più felice della sua vita. Assaporava il gusto sconosciuto della libertà. Arrivò per primo alla bottega, la aprì, sistemò gli attrezzi e, in attesa dei colleghi e dei clienti, si mise a leggere il giornale. In un piccolo trafiletto c’era una notizia che attirò la sua attenzione: in un orfanotrofio di un piccolo paese era divampato un incendio che non aveva lasciato superstiti. La sua infanzia era stata bruciata. Si sentì mancare. Si portò davanti allo specchio. Chiuse gli occhi e vide una parete da dipingere, un sorriso immotivato, una corsa intorno a letto, un abbraccio in cui rifugiarsi. Nessuno si era salvato: la porta non si era aperta. Pensava a questo mentre avvicinava la punta del rasoio alla gola.
Sol. La nascita di Sol ha il sapore della leggenda. Suo padre, una famosa stella cara ai terrestri (e non parlo di cinema), e sua madre, un’aria di dolce ghiaccio, non riuscivano a concepire (perché un triangolo inscritto in un circolo non paga la quota di iscrizione), decisero così di fare un patto col Diapason: in cambio della loro luce, lui avrebbe permesso loro di avere una figlia. Fu così che nacque Sol, o almeno questo è ciò che narra la leggenda. La cosa certa è che la vita fu felice fin da subito, per tutti loro: Sole si fece estate, Aria galleggiava in un mare di meraviglia e Sol aveva il mondo tra le mani (perché spesso il padre la portava con sé al lavoro). Le giornate di Sol erano felici e non esistevano tempo né spazio, ma tutto era sempre e ovunque, proprio come nei sogni di chi è appena sveglio ma ancora non lo sa. Aveva tutto: chiavi di violino, giochi, fuochi, frazioni, spartiti, stornati, punteggiature. Solo una cosa non aveva: amici. Non riusciva a trovarne nessuno, mai, in nessuna circostanza. Ma non dava molto peso alla cosa. Con la luce di suo padre e la freschezza di sua madre, non le mancava niente. Inevitabile, però, arrivò il giorno in cui questo non le bastò più. Sol si trovava in un parco fuochi, dove vanno a giocare i figli delle stelle, e se ne stava in un angolo a tracciare bisettrici, quando, alzando lo sguardo, vide tre movimenti giocare tra loro: Adagio, Andante e Allegro. In un solo istante e in tutta l’eternità si innamorò di Andante, perché non era come nessun’altro pur essendo tutti. Fece per avvicinarsi, ma una scia di archi portò via Andante e i suoi fratelli. Sol si confidò con i suoi genitori, per la prima volta esternò loro il bisogno di altro, la sua necessità di uscire dai raggi di suo padre e dall’eco di sua madre. Disse loro di essere innamorata, ma non capiva perché le era impossibile avvicinare gli altri. Sole e Aria, il giorno seguente, andarono da Diapason, perché temevano ci fosse il suo zampino (in quanto piccolo animale). «Perché nostra figlia non riesce mai ad avere amici, a conoscere altre persone?», domandarono. «Come perché? Erano i patti», fu la riposta. «No, in cambio della sua nascita, ci hai chiesto la nostra luce, non lei!». «Infatti. E cos’è la vostra luce se non la felicità di vostra figlia?». Erano affranti, disperati. Avevano rovinato la vita di Sol. Non potevano perdonarsi. Quella stessa notte, prima che Sole dovesse sorgere per andare a lavoro, presero una drastica decisione. Sole si eclissò in un buio di nubi e Aria si sciolse in un vento di plastica. Sol aveva perso tutto ciò che aveva. Le restava una sola cosa: l’amore per Andante. Ritornò al parco fuochi, ogni giorno, fino a quando lo rivide. Era decisa a dichiararsi, a dirgli tutto, era l’unico modo per poter continuare a esistere. Quando gli fu di fronte, per un attimo, si guardarono negli occhi. Era la prima volta. Andante sorrise un po’, Sol tanto. Ma appena fece per parlare, iniziò una fuga che coinvolse tutti e Andante sparì ancora una volta. Il parco chiuse, i fuochi si spensero, ma lei era ancora lì. Non c’era più niente. Aspettò la mattina, ma suo padre non c’era più. Cercò di respirare, ma nemmeno sua madre c’era. Sapeva che era colpa sua. Si appoggiò a un albero e guardò il cielo. Non si può vivere senza luce, non si può vivere senza respirare, costantemente in apnea, senza possibilità di essere e lasciarsi essere. Non si può vivere senza amore. Pensava a questo mentre annodava una corda intorno al collo.
La. Della vita di La esistono molte testimonianze e numerosi dettagli. Le circostante della sua nascita furono singolari, infatti Gli e Le non erano stati invitati. Suo padre era un cocente di grammatica (perché si scaldava molto insegnando) mentre sua madre, una tonica scala, era una scrittrice che frequentava tutti i generi – in particolare le piaceva il poema (anche il Lovecraft). Insomma, l’infanzia di La aveva due giganteschi punti di riferimento, i quali, oltre a fargli da scudo e da supporto, proiettavano anche una grossa ombra. Faticava a emergere, non riusciva a imporre la propria individualità. Si sentiva costantemente sotto pressione, doveva sempre dimostrare il suo valore, che per i suoi genitori non era mai abbastanza. Decise quindi di diventare chiunque, così si ritirò nel santuario della passacaglia con l’intenzione di studiare disperatamente qualsiasi cosa (come un poeta maculato che conosco solo io). Dopo pochi anni divenne: accovato (cioè difensore legale delle galline molestate dagli allevatori), pedinatore di sassi, astrochimico medioverticale, grattacielo di architetti, venditore ambulante, apprendista stregone, istruttore di tombola, quasi contadino, calcolatrice, bisettrice, pettinatore sul ghiaccio (cioè parrucchiere antartico), ballatore danzerino, traduttore di trattori e controfigura di triangoli stanchi. Ma la sua vera passione era la medicina, fin da piccolo aveva sognato infatti di diventare un dottore, di curare gli altri e salvare delle vite. E finalmente arrivò il giorno in cui realizzò il suo sogno. Indossando il camice bianco andò dai suoi genitori, che per la prima volta lo guardarono fieri e orgogliosi. La non era mai stato così felice. Le sue straordinarie capacità gli permisero in poco tempo di diventare un medico affermato, tanto da ricoprire il ruolo di primario all’ospedale “Gli stonati”. La sua carriera fu un successo strepitoso, La ebbe molte onorificenze, tra cui il premio Decibel per la medicina. Eppure non era più felice. La sua vita di medico gli aveva mostrato la realtà che si celava dietro il suo sogno: la vita è un mostro affamato e insaziabile. Avevo visto troppi orrori per poter dormire senza incubi. Quei bambini malati di cancro e di angoscia, quel ragazzo che non è riuscito a salvare, gli occhi di sua madre mentre le diceva che il tumore all’utero era irrimediabile, le ossa spezzate, quei bambini massacrati da una coppia di fidanzati, i fiumi di dolore, quell’anziano corroso dalla solitudine, la disperazione, tutti i sorrisi estinti, le bocche fredde, la notte in cui si accorse che suo padre non respirava più, quell’operazione che non era andata bene, le pacche sulle spalle, le sale d’attesa, l’odore dei corridoi, tutti i giorni. La vita è un male incurabile. Pensava a questo mentre ingoiava un intero flacone di pillole.
Si. La mattina in cui nacque Si non la ricorda più nessuno. Potrebbe essere stato un pomeriggio di foglie o una neve di notte. Della sua infanzia si sa molto poco: suo padre lavorava come affermazione mentre sua madre svolgeva le mansioni di pronome, ma vivevano tempi di profonda crisi: negazioni e soggetti portarono, infatti, l’intera famiglia sul lastrico. Dunque, l’infanzia di Si fu segnata dalla povertà. Ma non si diede pervinca, perché lei preferiva il giallo, così prese la decisione di decidere in fretta cosa fare. Nel frattempo, coltivava il suo sogno: affermarsi come chef, per questo partecipò al concorso “Cucina strumentale”. Le sue aspettative erano alte, perché lei era davvero brava, ma dovette arrendersi alla cattiveria dei giudici che, nel valutare il suo piatto forte, dissero: «sì, beh, molle. Non va bene». La delusione fu grande, così Si tornò a casa con la coca tra le gambe (perché ogni tanto aiutava un suo cugino straniero, tale Yes, nello spaccio di droga). Ma, benché lo sconforto fosse notevole, Si non si abbandonò alla disperazione, anzi al contralto: ebbe un acuto di nuova speranza. Tentò di fare carriera nella mondo della moda, ma la sue novità (portare il cappello al guinzaglio e i pantaloni usa e getta) non conobbero successo. Spostò il suo interesse nel campo delle invenzioni, ma anche qui le sue trovate non produssero buoni risultati (tra le sue maggiori invenzioni si ricordano: il parabrezza graduato per gli automobilisti con problemi di vista, i marciapiedi con numerosi ostacoli per i veramente abili, i film in bianco e bianco per gli spettatori razzisti e l’aquilone senza fili). La vita continuava a dare dispiaceri alla povera Si. Non capiva, si sentiva presa in giro dal destino. Allora non aspettò oltre. Ogni cosa era inutile. Pianse. Era tutto ciò che poteva fare. Voleva solo essere qualcuno. Voleva solo essere. Pensava a questo mentre aspettava che il veleno portasse il buio.
Riposino in guerra.
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