5 cose per cui vendersi sempre

Tempo fa XCose ha presentato una guida delle 5 cose per cui non vendersi mai, oggi io ne presento l’altra faccia: le 5 cose per cui vendersi sempre.

A prescindere da tempi e luoghi, l’essere umano è sempre uguale a se stesso. Costantemente teso alla conservazione del proprio posto nel mondo, ogni individuo carica ogni cosa di significati che farà fatica a mettere in discussione, malgrado lo sciame del pensiero corra secondo traiettorie imprevedibili e pertanto mutevoli. Ciò vuol dire che l’evoluzione della concezione delle cose del mondo e quella del loro essere seguono percorsi diversi: da una parte c’è quello peculiare della nostra specie, dall’altro c’è quello che possiamo definire “poetico”, che inevitabilmente si muove su strutture di pensiero altre. Il punto che voglio evidenziare è questo: la povertà e la banalità di cui l’uomo è affetto sono da imputare a una visione e una percezione dell’esistenza “troppo umana” (la quale, naturalmente, non è sbagliata né giusta: è), che tuttavia necessitano di uno spostamento di prospettiva che soltanto uno sguardo metaforico può rendere possibile. Questo può avvenire soltanto “vendendo” se stessi alle sole cose capaci di riempire di cieli il nostro cielo.

Posts not found

 

La bellezza

Partiamo subito dalla questione più complessa: la Bellezza. Espressa in questo modo, questa parola evoca subito un universo di significati piuttosto definito. Ma non è questo ciò di cui sto parlando. Non si tratta di estetica, o meglio non solo di questo: parlo di quel concetto che i greci riassumevano nel termine kalokagathìa (“bello e buono”). Una sintesi di virtù e lineamenti, morali ed estetici, che rendono un individuo, un luogo, un evento o qualsiasi altra cosa bello. A questo bisogna sempre vendersi. Senza alcun ritegno. Vendersi alla bellezza, al suo essere e al suo avere, e iniziare a coniugare all’eterno tutti gli istanti. Dobbiamo capire che l’unica via che abbiamo per non continuare ad annegare è diventare acqua. Ecco, la bellezza ci dice proprio questo: de-formatevi. Vendersi alla bellezza significa diventare capaci, ma non capaci come un uomo, capaci come un liquido: assumere forme altre e altrui, diventare altri per diventare se stessi, invadere le esistenze, sopprimere il banale a colpi di assenze, di orizzonti in divenire e di improvviso (bell’ e buon). Questa è la bellezza di cui parlo, e alla quale ognuno di noi dovrebbe vendersi in ogni modo possibile. Invece ci ostiniamo a comprare attimi di esistenza che invariabilmente marciscono. Si tratta, in sostanza, di un modo di essere e pensare e non di un essere e di un pensiero. Mi spiego peggio: si tratta di una forma e non di un contenuto. La bellezza deve essere il fine ultimo e la prima fine: scopo e catastrofe, ovvero morfogenesi, nascita di nascite, vita gravida di esistenza. Questo è il modo, l’unico a mio avviso, in cui il tumore del banale, in ogni sua espressione, può essere estirpato. «La bellezza salverà il mondo».

 

 

L’irraggiungibile

Per sua natura, l’essere umano è inarrestabile. Questa è la sua condanna, questa è la sua fortuna. Nulla è mai abbastanza (nemmeno il Nulla). L’orizzonte è il desiderio. Le declinazioni di quest’ultimo sono molteplice, eterogenee e contraddittorie. In quanto irraggiungibile, l’orizzonte è sempre attraente. Ma ancora una volta, come sempre, quello che importa è il modo in cui si agisce, la forma delle proprie azioni, piuttosto che il contenuto del gesto. È dunque necessario vendersi all’irraggiungibile, perché l’orizzonte è scrigno di desideri, ma a una sola condizione: vendersi attraverso atti di bellezza. Lo so, non è chiaro: ma non può essere altrimenti. Bisogna allenarsi a toccare il cielo, a ottenere l’irraggiungibile, a visitare l’oltremodo, a frequentare l’inaccessibile ai sensi. È il primo passo verso il bello di cui parlavamo prima (e vendersi alla bellezza è il primo passo per guardare all’irraggiungibile con la giusta prospettiva: è un intreccio, come il serpente che si morde la coda, come una passeggiata su una scala di Escher).

 

 

L’inatteso (ovvero l’inesprimibile, l’inaudito, l’inafferrabile, il micidiale)

Inestricabilmente connesso a ciò che non si può non raggiungere è l’inatteso (e lo sterminato esercito di mondi possibile a esso correlato). Non c’è alternativa: bisogna vendere la propria anima, il proprio cuore, ogni fibra della propria mente all’inatteso. Si tratta di ciò che potrebbe essere che si erge a dimensione stabile dell’essere in luogo di ciò che è o deve essere, e noi dobbiamo lasciarglielo fare invece di continuare a costruire muri di già fatto, già detto, già visto. Ecco, dovremmo iniziare a venderci a tutto ciò, ma al contrario continuiamo a voler vendere all’inatteso le nostre incertezze, che sono le sole colonne del tempio del Possibile. Finché resteremo ancorati all’idea secondo cui i sogni devono diventare realtà non ci evolveremo mai (con buona pace di Bill Hicks, Iosif Brodskij e Nassim Taleb), ma dobbiamo andare alla deriva dell’idea per cui la realtà deve diventare sognante. È una variazione dello sguardo, uno scarto molecolare dell’esserci nel mondo. L’inatteso, accolto dall’irraggiungibile orizzonte avvicinato attraverso atti di bellezza, rende plausibile le condizioni di questa metamorfosi. In definitiva, dobbiamo smettere di porre resistenza ai venti della vita (banalità, stasi, mediocrità) e iniziare a porre esistenza agli eventi della vita (possibilità, altro, divenire).

 

 

L’oltre

Attraverso atti di bellezza si avvicina l’orizzonte e l’irraggiungibile che contiene per lasciarsi sor-prendere dall’inatteso, lo scopo (e l’origine) di tutto ciò è l’oltre, ovvero ciò che non si limita a essere se stesso. Nell’universo semantico dell’oltre rientra ogni cosa che aspira a contenere moltitudini, tutto ciò che tende alla metafora, che valica i confini del (proprio) significato e si inserisce in traiettorie di senso inedite e multiformi. Senza la minima esitazione (o anche con tutte), dobbiamo vendere noi stessi a questo ordine di idee. L’oltre, che pervade e penetra ogni cosa, è in costante richiamo, ma siamo sordi. Il tappo che ostruisce le nostre orecchie siamo noi stessi, la nostra concezione povera di realtà, la banalità del nostro esserci nel mondo. Questi sono i demoni che ci tarpano le ali, questi siamo noi. «Abbiamo incontrato il nemico, e siamo noi» diceva Pogo (e se non sapete nemmeno di cosa sto parlando, siete miei nemici): ecco, in questa frase è sintetizzata l’essenza umana dell’individuo: niente ostacola l’oltre (la proliferazione di significati altri e ulteriori) come l’insistenza di uno sguardo fisso (e non ho detto assente e non ho parlato di occhi chiusi). Voglio dire, finché non capiremo che ogni cosa è qualunque altra, che ognuno è ciascuno, che esiste tutto ciò che esiste compreso l’inesistente, finché resteremo confinati in noi stessi e non ci lasciamo esplodere nell’immenso in noi stessi, allora resteremo ancorati a un grado inferiore di esistenza, come fiori di plastica.

 

 

Una buia notte luminosa in cui tutto diventa niente e viceversa

È necessario vendersi all’inesistente. Alla cittadinanza dello stato d’animo. Al fiorire delle parole. All’improvviso. Al dolore del mare che si frange sulla terra. Alle esplosioni di idee, comprese quelle altrui. Al richiamo delle dee. Alla tentazione del canto, del silenzio, dell’adesso. Alle «meraviglie del possibile». All’oltranza. All’insistenza. All’attimo eterno e all’eterno effimero. Alla closure. A ciò che non si conosce. Alle derive. A Wislawa Szymborska. Al colore del mare che si lancia sulla terra. Agli insetti. Ai mostri. Al blu. A lei. È necessario vendersi all’unica cosa che conta davvero, quella di cui ho parlato finora: la poesia.

AmazonDolore e ragione WikipediaMagritte

robe

Scrivo, cerco, abito esistenze. Ho trovato nella sociologia una dimensione che posso chiamare casa. Mi affascinano la potenza degli atti creativi, le esplosioni di idee, la dialettica esistente tra il divenire sociale e i processi di costruzione identitaria, tutte le assenze, qualsiasi cosa sia altro. Allora mi lascio scrivere, cercare, abitare.