73829102938475632517364 trasfusioni di sole

 

Ovvero: come ho imparato a non finire e ad amare l’inevitabile oscurità luminosa delle stelle morte ancora in vita.

 

 

 

 

 

 

Questo è un tentativo di rianimazione. Dalla finestra stretta una scia di finzione cerca invano di fare breccia nel reale. Le arterie sono chiuse. La materia grigia di cui sono fatti i sogni è in preda a metastasi di buio a forma del solito sole. Non esistono eclissi né aurore né tramonti. È la fissità del cielo che finge l’esistenza. È la stasi del mutare che tinge l’esistenza. Di plastica. Di ruggini. Di estinzioni. Di te. Di questo opaco attendere. Una lunga corsa dentro gli ostacoli. Fino a comparire nell’oscurità. Fino a qui non esiste ancora niente. C’è bisogno di averne bisogno. C’è sogno e sogno. Si squarcia il sipario. Questo è solo il mentre. Intanto le mani affondano sul cuore. Il processo di desertificazione dei desideri inespressivi è la sola chiave di scrittura possibile. Di questo e di tutt’altro parlano i poeti. Ma non si possono vedere. Né ascoltare. Né capire. Vanno solo consumati. Ancora. E ancora. Decapitati e ingoiati. Oltre ogni possibile dito che indica qualsiasi impossibile cielo. Dalla finestra stretta una scia di luce ti ricorda che è tutto vero. E se non riconosci le assenze. Se non hai capito come aprire le vene per queste trasfusioni di sole. Ti resta una sola cosa da fare. Libera. Liberati. Ti stiamo perdendo.

 

 

 

 

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Scrivo, cerco, abito esistenze. Ho trovato nella sociologia una dimensione che posso chiamare casa. Mi affascinano la potenza degli atti creativi, le esplosioni di idee, la dialettica esistente tra il divenire sociale e i processi di costruzione identitaria, tutte le assenze, qualsiasi cosa sia altro. Allora mi lascio scrivere, cercare, abitare.