5 novembre 2024, una data storica per gli Stati Uniti e il mondo intero

Storico testa a testa tra i due candidati

di Filippo Battiloro

Il prossimo 5 novembre si terranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America. La sfida vede su versanti opposti la Vicepresidente uscente Kamala Harris, ex Procuratrice e rappresentante dei democratici, e l’ex Presidente repubblicano Donald J. Trump. La vittoria di uno o l’altro dei due contendenti influenzerà non soltanto le relazioni internazionali e diplomatiche tra le Grandi Potenze ma, più in generale, l’intera economia globale e l’esito dei conflitti in atto tra la Russia e l’Ucraina ed in Medio Oriente.

Img: sito di Sky Tg 24.


   Come scritto in un nostro precedente articolo, il sistema di elezione del Presidente Usa è unico nel suo genere. In base ad esso, ad ogni Stato della Repubblica federale è attribuito un numero di grandi elettori, rivisto periodicamente e stabilito su base demografica. Il meccanismo dei grandi elettori è radicato nella storia della Nazione. Un tempo, esso rispondeva innanzitutto all’esigenza che nell’elezione del Presidente si tenesse conto in egual misura degli stati demograficamente ed economicamente avanzati e di quelli ad economia prevalentemente agricola e tessile ossia le periferie rurali. Inoltre, il giorno delle elezioni non doveva ricadere di domenica, come avviene ad esempio in molti Paesi occidentali, poiché quel giorno è dedicato alle celebrazioni religiose. Il giorno scelto per le elezioni è, quindi, il martedì successivo al primo lunedì di novembre. Non bisogna mai dimenticare, infatti. le radici cristiane di fondazione degli Stati Uniti, dei Padri pellegrini e del mito della Città sulla collina (The City upon a hill) ossia una Nazione fondata su valori etici cristiani che dovesse fungere da esempio per tutte le altre. Tant’è vero che anche sul dollaro statunitense campeggia la scritta <In God we trust> (in Dio noi confidiamo). D’altronde, il mese di novembre è il mese di riposo del mondo agricolo e, pertanto, il periodo nel quale era possibile organizzarsi per recarsi a votare il Presidente. Un tempo i grandi elettori erano fisicamente identificabili, oggi si tratta un mero meccanismo di computo numerico. 

   In ogni Stato federato, fatta eccezione per il Nebraska ed il Maine che adottano il maggioritario per distretto, il Partito che si impone, conquista tutti i grandi elettori di quello Stato (the winner takes all): se in Texas il Partito Repubblicano vince, anche per 1 solo voto in più, esso conquista tutti i 40 grandi elettori attribuiti a quello Stato. Ad esempio, il repubblicano Ronald Reagan nel 1980 sconfisse sonoramente il Presidente democratico uscente Jimmy Carter conquistando ben 489 grandi elettori e replicando il risultato nel 1984, raggiungendo il numero ineguagliato di 525 grandi elettori su 538.

   L’importanza che riveste il Collegio dei Grandi Elettori rispetto al voto popolare è stata una delle cause della rinuncia del Presidente uscente Joe Biden alla ricandidatura alla Casa Bianca. Anche se avesse avuto la maggioranza dei voti popolari, Biden avrebbe molto probabilmente perso negli Stati chiave, i cosiddetti “Swing States” o “Toss-up States”. Inoltre, i limiti legati all’età anagrafica del Presidente democratico hanno influito sulla decisione di ritirarsi.

Le conseguenze del voto del 5 novembre in politica estera.

Il risultato del voto del 5 novembre avrà effetti importanti nell’agenda di politica estera degli Stati Uniti. Verranno qui brevemente analizzate le conseguenze di un’eventuale vittoria democratica o repubblicana sulla guerra russo-ucraina, il conflitto in Medio Oriente e la tensione nello Stretto di Taiwan che costituiranno i tre dossier principali sul tavolo dell’eligenda amministrazione.

   Una riconferma dei democratici alla Presidenza comporterebbe il prosieguo della strategia antirussa adottata da Biden in Europa dell’Est. Saranno varati nuovi pacchetti di invio di armi al Presidente ucraino Zelensky in un’ottica di resistenza all’occupazione russa di gran parte del territorio orientale dell’Ucraina. Negli ultimi mesi l’amministrazione Biden ha preso in considerazione la possibilità dell’avvio di una conferenza che abbia come obiettivo il raggiungimento di una “pace giusta” ossia una proposta di cessazione delle ostilità che tenga pienamente conto delle indicazioni del governo ucraino, benché appaia difficile convincere la diplomazia russa ad accettare tale piano senza prevedere un accordo di neutralità di Kiev con la conseguente rinuncia ad entrare nella NATO. Di certo, la politica estera dei democratici nei confronti di Vladimir Putin è stata improntata al ripristino della retorica bipolare, come mai si era vista dai tempi di Ronald Reagan, tra il “fronte del bene” occidentale e le “forze del male” (Russia e regimi autoritari asiatici in generale) escludendo qualsiasi tentativo di dialogo e restando arroccati sul principio manicheo della salvaguardia degli interessi dell’Occidente contro i Paesi BRICS, gruppo formato da Brasile, Russia, India, Cina e il Sudafrica, a cui si sono aggiunti nel corso del 2024 Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti.

Immagine dal sito AGI.

   Al contrario, la vittoria di Donald Trump comporterebbe molto probabilmente una svolta nelle relazioni politiche e diplomatiche tra la Casa Bianca ed il Cremlino. Più volte, durante la campagna elettorale il tycoon ha, infatti, espresso dubbi in merito alla strategia seguita dai democratici in Ucraina ed ha affermato di avere intenzione di risolvere il conflitto il prima possibile attraverso l’indizione di negoziati tra le parti per evitare il terzo conflitto mondiale.

   Per quanto concerne lo scenario mediorientale, la situazione presenta un maggior livello di complessità. La vittoria della procuratrice democratica sancirebbe la prosecuzione della politica estera di Biden di sostegno militare ad Israele ed aumenterebbe il rischio di escalation che coinvolgerebbe l’Iran ed i Paesi di matrice sciita. L’affermazione di Trump alle elezioni, benché il tycoon abbia espresso un forte sostegno ad Israele, potrebbe favorire un approccio pragmatico di dialogo con i leader mediorientali e i Paesi arabi produttori di petrolio in seno all’Opec. Oltretutto, l’avvio di una conferenza di pace sulla questione ucraina potrebbe avere delle ricadute diplomatiche e spiragli di pace anche in Medio Oriente. Se gli Stati Uniti, infatti, decideranno di disimpegnare o, ad ogni modo, ridurre la produzione delle armi e la vendita delle stesse all’estero, il governo israeliano si troverebbe nella situazione di non poter più contare sulle forniture di armamenti americani e ciò spingerebbe il premier Netanyahu a prendere in considerazione una soluzione diplomatica del conflitto.

Img dal sito della rivista LIMES.

   Per quanto concerne la questione di Taiwan, la vittoria dei democratici rappresenterebbe il prosieguo della linea diplomatica basata sui princìpii della difesa della libertà e della democrazia in maniera muscolare contro la tirannia cinese. Al contrario, la vittoria di Trump impronterebbe l’agenda di politica estera statunitense su un piano diverso, più pragmatico e commerciale. In questo secondo caso, la situazione andrebbe via via a stabilizzarsi, la sfida tra l’USA e la Cina si trasferirebbe dal piano militare a quello dell’import-export e sui dazi doganali, che sono stati peraltro mantenuti e rafforzati dall’amministrazione Biden.

Img dal sito dell’Enciclopedia Treccani.

Analogie e differenze con le elezioni presidenziali del 2020.

Si possono cogliere alcune analogie tra le elezioni del 2020 e quelle del 2024, sebbene i due turni elettorali si differenzino per molteplici aspetti.

   In primo luogo, nel 2020 imperversava la pandemia da covid-19 e l’elettorato optò, sia per tradizione che per motivi igienico-sanitari, per il voto postale per corrispondenza. Il voto postale fu determinante per la vittoria di Joe Biden. Difatti, la sera delle elezioni sembrava che Trump potesse farcela, ma dal giorno successivo man mano che venivano scrutinati i voti postali lo scenario cambiò e il candidato democratico riuscì ad imporsi con un minimo margine di preferenze negli Stati chiave. I sondaggi alla vigilia del voto davano Biden in vantaggio di svariati punti in quasi tutti gli <<swing states>>, sondaggi che si rivelarono parzialmente inesatti e sbilanciati a favore dei blu. Nel 2024, a pandemia terminata, i sondaggi prevedono, a differenza di 4 anni fa, una situazione di sostanziale parità tra i due contendenti in tutti gli Swing States che sono la Pennsylvania, il Michigan, il Wisconsin (Stati del blu wall), l’Arizona, il Nevada, la Georgia, la Carolina del Nord (parte degli Stati della sun belt). Al contrario di quanto afferma parte della stampa che sostiene che basta aggiudicarsi la Pennsylvania per vincere la Presidenza, è da ritenersi che anche gli altri Stati del blu wall e della sun belt, almeno a questa tornata, giochino un ruolo fondamentale: la sconfitta in Michigan e Nevada annullerebbe, infatti, la vittoria in Pennsylvania per quanto concerne il computo dei grandi elettori (19 la Pennsylvania, 15 il Michigan e 6 il Nevada).

   L’elettorato appare più che mai spaccato, similmente a 4 anni fa. C’è da aspettarsi un numero ancor più elevato di elettori che esprimeranno il proprio voto sia in presenza il giorno del 5 novembre che per corrispondenza. È molto probabile che la sera delle elezioni non si conosca il risultato elettorale. Se i sondaggi dovessero essere confermati, ci sarebbe una situazione di sostanziale parità che potrebbe tenere il mondo col fiato sospeso per giorni. Entrambi i partiti hanno finanziato commissioni di legali esperti in materia elettorale pronti a contestare ogni singolo voto per aggiudicarsi i grandi elettori di ogni Stato conteso all’uno o all’altra dei candidati. In quest’ultima evenienza, non sono da escludere scontri e violenze di piazza che potrebbero sfociare in un clima di guerriglie urbane se non addirittura di guerra civile (non sarebbe la prima volta negli Stati Uniti).

   Ad esacerbare la spaccatura dell’elettorato statunitense hanno concorso i due tentativi di attentato al tycoon che, per una serie di circostanze fortunate, è stato colpito la prima volta soltanto di striscio, mentre la seconda volta il cecchino è stato fermato giusto in tempo. Di fatto i due episodi hanno rafforzato il candidato repubblicano che si è qualificato come “provvidenziale” leader, soprattutto in seguito alla sua reazione coraggiosa dopo il colpo subito a Butler, Pennsylvania.

   Attenta è stata anche la scelta dei vicepresidenti da parte di entrambi i team. Mentre la candidata democratica ha scelto il Governatore del Minnesota Tim Walts, insegnante di professione e figura di spicco del partito, il tycoon ha nominato come proprio vice il senatore dell’Ohio J. D. Vance, cattolico, ex arruolato nei marines, laureato in scienze politiche e filosofia, dottorato in giurisprudenza, ha promosso politiche antitrust, favorevole all’aumento dei salari e alla sindacalizzazione. La scelta di Vance può essere considerata uno degli indici di cambiamento del partito repubblicano americano, più simile, per certi aspetti, ai repubblicani delle origini nel XIX secolo che a quello del ‘900. In un prossimo articolo analizzeremo in dettaglio il cambiamento dei principi politici e dei programmi dei partiti repubblicano e democratico statunitense che si sono “invertiti” già una volta nella storia: ricordiamo al lettore che nell’800 Abramo Lincoln, Presidente repubblicano, abolì la schiavitù durante la sua presidenza e difese i nativi americani in contrapposizione agli stati del sud democratici e favorevoli allo schiavismo.

Img: Abraham Lincoln, XVI presidente degli Stati Uniti, repubblicano, img dal sito https://www.britannica.com/biography/Abraham-Lincoln

Le variabili demografiche e religiose

    Molta attenzione è posta da entrambi i partiti sulle variabili demografiche. Se da un lato gli ispanici sono divisi tra sostenitori di Trump (principalmente i latinos cubani) e di Harris (messicani), dall’altro gli afroamericani sembrano propendere nel complesso per Kamala Harris. In questa tornata il genere, come nelle elezioni del 2016, può giocare un ruolo determinante. La candidata democratica, infatti, risulta essere più popolare tra le donne mentre il tycoon è preferito dagli uomini sia bianchi di origine europea che afro e messicani. La discesa in campo di Obama sembra aver peggiorato la situazione della ex-procuratrice dem perché l’ex presidente democratico ha mostrato insofferenza verso chi non vota Harris nella comunità black accusandoli di misoginia, similmente a ciò che accadde quando accusò nel 2016 gli elettori di Trump di essere retrogradi perché leggevano la Bibbia e bevevano birra. In Michigan la componente di elettorato bianco di origine germanica sembra far pendere la bilancia in favore di Donald Trump. Le comunità arabe sembrano non intenzionate a votare in favore dei democratici in conseguenza della linea politica seguita da Biden in Medio Oriente.

   Anche le variabili religiose, infine, giocheranno un ruolo importante. Su questo fronte, la candidata democratica ha commesso l’errore di non partecipare, a differenza del suo avversario repubblicano, alla cerimonia organizzata dai cattolici americani per conoscere i candidati alla Casa Bianca.

   Da ultimo, l’endorsement politico e finanziario di Elon Musk a favore della campagna elettorale di Trump e l’appoggio dell’avvocato Robert Kennedy, erede della ben nota dinastia presidenziale, contribuiranno a spostare voti in favore dei repubblicani, mossa controbilanciata dal sostegno di Taylor Swift in favore di Harris.

   Ci lanciamo, infine, in una previsione dell’esito delle elezioni americane Stato per Stato che tiene conto di tutte le variabili considerate nell’articolo, ponderandole con i sondaggi.

Alabama R; Alaska R; Arizona R; Arkansas R; California D; Colorado D; Connecticut D; District of Columbia D; Delaware D; Florida R; Georgia R; Hawaii D; Idaho R; Illinois D; Indiana R; Iowa R; Kansas R; Kentucky R; Louisiana R; Maine State D; Maine District 1 D; Maine District 2 R; Maryland D, Massachusetts D; Michigan R; Minnesota D; Mississippi R; Missouri R; Montana R; Nebraska State R; Nebraska District 1 R; Nebraska District 2 D; Nebraska District 3 R; Nevada R; New Hampshire D; New Jersey D; New York D; North Carolina R; North Dakota R; New Mexico D; Ohio R; Oklahoma R; Oregon D; Pennsylvania R; Rhode Island D; South Carolina R; South Dakota R; Tennessee R; Texas R; Utah R; Vermont D; Virginia D; West Virginia D, Washington D; Wisconsin D; Wyoming D.

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Filippo Battiloro

Nato il 31 ottobre 1989 a Napoli. Laureato magistrale in Studi Internazionali col massimo dei voti presso l’Università L’Orientale di Napoli nel 2013 con tesi riguardante l’ingresso della Turchia nella Nato. Laurea triennale in Relazioni internazionali e diplomatiche presso la medesima Università con tesi in lingua francese riguardante le relazioni politiche e diplomatiche dei Paesi del Nordafrica con le Grandi Potenze durante le primavere arabe pubblicata da L’Orientale editrice. Master in Studi diplomatici conseguito presso la società SIOI- sez. Campania - Presidente: Prof. Giuseppe Tesauro. Esperto in lingua francese e inglese. Tirocini universitari svolti presso il Consolato britannico di Napoli e la Prefettura di Napoli – Uff. legalizzazioni e immigrazione. Ha svolto il servizio civile presso l’Ufficio Immigrati della Caritas diocesana di Napoli. Attualmente è Segretario amm.vo presso un ente che si occupa di distribuzione di derrate pubbliche e trasmissione di dati al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Ha fondato l’Associazione "Amici dei Combattenti e Reduci Napoletani ODV" che si occupa della promozione della storia e della diplomazia nelle relazioni internazionali.