3 motivi per leggere Jennifer Worth, autrice di Call the midwife
Di solito non mi piace ricordare l’anniversario della scomparsa di una persona, preferisco di gran lunga quello di nascita, ma dopo aver scoperto che domani è quello di Jennifer Worth, una delle mie autrici preferite, ho voluto approfittarne.
Prima che scrittrice, pianista e cantante, è stata una levatrice e infermiera del secolo scorso, la cui esperienza è alla base della trilogia di Call the midwife, edita in Italia da Sellerio dal 2014.
Nonostante si sia dedicata alla scrittura solo nella parte finale della sua vita, si è dimostrata più che all’altezza del compito, quindi ecco i miei 3 motivi per leggere Jennifer Worth ed empatizzare col suo mondo.
Ha inaugurato un nuovo filone letterario
La trilogia di Call the midwife – composta da Chiamate la levatrice, Tra le vite di Londra, e Le ultime levatrici dell’East End – tratta dell’esperienza di Jennifer Worth (all’epoca Jenny Lee) come infermiera e levatrice nelle Docklands degli anni Cinquanta, una delle zone più povere dell’est di Londra.
Anche se i testi divulgativi e di fiction, a tema ostetricia, abbondano, di certo l’opera della Worth è unica nel suo genere per la sua commistione di autobiografia e saggistica; è infatti indispensabile tenere insieme le due categorie visto che da sole non riescono a descriverla appieno.
Abbondano la narrazioni diaristiche dei parti, degli aneddoti su pazienti, amiche, colleghe, e amori, ma il tutto è sempre accompagnato da manifesti di denuncia sociale.
Non si può parlare di una vicenda senza contestualizzarla, e non si può parlare di quartieri disagiati come Poplar senza menzionare le condizioni disastrose in cui la gente viveva e lavorava, gli ospizi per poveri, e il servizio sanitario nazionale insufficiente, senza fare denuncia sociale insomma.
Il merito di Jennifer Worth è quindi duplice: ha scritto dei libri degni di nota, ritratti realistici ma ironici di una Londra di meno di un secolo fa, e ha dato la giusta dignità alla figura delle levatrici in letteratura, fino a quel momento trascurate e sottovalutate a favore di quella di chirurghi.
Ci apre le porte di una realtà quasi sconosciuta
“Se qualcuno mi avesse detto, due anni fa, che sarei finita in un convento per compiere il mio apprendistato di levatrice, me la sarei data a gambe.”
Poplar, Londra, anni Cinquanta.
Provate a immaginare una ragazza di buona famiglia che, dopo un corso di ostetricia e infermieristica, viene mandata in uno dei quartieri più poveri e degradati di Londra, ancora recante i danni della seconda guerra mondiale, a svolgere il suo apprendistato.
Una giovane donna dolce, carina, e impegnata, abituata a essere circondata da amici e spasimanti che trova alloggio a Nonnatus House, un convento di suore infermiere e levatrici, dove, oltre a vivere insieme ad altre giovani praticanti, continua la sua preparazione teorica e pratica.
Il quartiere di Poplar appartiene a una zona dell’est di Londra, le Docklands, un concentrato di industrie, sporco, povertà e ingiustizia sociale. Un luogo dove l’orologio del tempo pare essere fermo da più di qualche decennio, fotografando una realtà familiare dal sapore dickensiano.
La vita che anima quei quartieri è tra le più misere e disagiate che l’Inghilterra abbia mai visto, ma anche una tra le più prolifiche: il lavoro per le levatrici non manca di certo, specialmente se sono quelle di quartiere che hanno dimostrato la loro fedeltà per lunghi anni, soprattutto durante gli anni difficili della guerra. Molte delle donne che Jenny e le sue colleghe aiutano a partorire sono le bambine venute alla luce sotto le bombe, o poco prima. Tuttavia queste ostetriche non si occupano solo di accudire donne incinte e neonati in tutto il loro percorso, ma anche di offrire assistenza infermieristica a chiunque ne abbia bisogno.
La domanda che sorge spontanea è come mai queste persone non si rivolgessero ai medici e avessero il terrore degli ospedali. La risposta più istintiva grida “per soldi!”, ma una più accorta sussurra “ospizi per poveri”.
Si tratta di realtà tipiche del fine Ottocento/inizio Novecento che si occupano di “accogliere” le persone più in difficoltà come vedove, orfani, poveri, malati che non sono più in grado di pagare l’affitto o da mangiare. Le virgolette sono d’obbligo in quanto gli ospiti sono pressoché obbligati, dalle forze dell’ordine o dalla vita, a recarvisi e il trattamento ricevuto non è certo caritatevole: genitori e figli separati, scarsa igiene e cibo, lavori forzati e prospettive di vita brevi e miserabili.
Anche se negli anni Cinquanta sono stati quasi tutti chiusi, rappresentano ancora un feroce incubo per gli abitanti di alcuni quartieri, nonché una diretta associazione con gli ospedali. Ecco perché le suore infermiere sono tanto preziose: loro capiscono, loro sanno, loro curano.
Anche Jenny, in un mondo in cui le condizioni igieniche sono pessime, i bagni vanno condivisi, il cibo e i soldi scarseggiano e il lavoro è infamante, impara a conoscere un diverso impegno per gli altri, una sorprendente e imperitura volontà a mantenersi degni, un nuovo rispetto che sa superare l’impulso di fuggire.
La sua opera ha ispirato un capolavoro di serie tv
In Italia Chiamate la levatrice è stato pubblicato nel 2014 da Sellerio e, il sei luglio dello stesso anno, su Rete 4 è andato in onda il primo episodio de L’amore e la vita, serie tv tratta dai libri della Worth e adattamento della versione inglese Call the midwife.
In otto anni il numero di stagioni è arrivato a nove, per ovvie ragioni è andato oltre il materiale letterario ma, con incredibile maestria e rispetto, la produzione è riuscita a mantenere sempre vivo lo spirito originale della trilogia.
Lo spettatore può assistere alla crescita dei personaggi, al loro adattamento col passare dei tempi, all’enorme profondità e umanità delle vicende narrate senza mai stancarsi o sentirsi tradito.
È impossibile non citare anche la cura messa nel presentare i casi medici (due o tre a puntata), l’attenzione nell’abbigliamento, nella strumentazione usata, nella terminologia. Nulla è lasciato al caso.
Il cast è molto vario vista la durata di ogni episodio (un’ora o più) e la quantità di ruoli occasionali necessari, si è evoluto con rispetto e naturalezza.
Nelle prime tre stagioni la protagonista indiscussa è proprio Jenny Lee, interpretata da Jessica Raine, ma al termine delle riprese l’attrice ha lasciato il progetto. I più informati sanno che è per una sua scelta professionale, ma la produzione della serie è stata molto abile a mascherarlo: Jenny lascia il convento e l’ostetricia per dedicarsi ai malati terminali. Più o meno la stessa cosa che ha fatto la Worth nella vita reale.