1 recensione di “Still Life”
Still Life – Uberto Pasolini, 2013
Un’inesistenza di fiumi in costante piena. Gradini estranei per colazioni immaginarie. L’assenza intesa come folla di esistenze, come esercito di attimi in procinto di diventare e diventarsi. L’inconcepibile nulla e il suo invito a cena. Le sere uguali, la forza indomabile, i riti quotidiani, un giorno che non si può credere, le passeggiate eterne. Questa mattina di pioggia disegnata.
John May è un uomo speciale. Ricama dettagli di vite e di giorni, raccogliendone i particolari, inventandone le sfumature. Osserva. È un uomo buono. Il suo lavoro consiste nel rintracciare i parenti più prossimi delle persone morte in totale solitudine. Ma lui va oltre, va sempre oltre (come solo certi poeti o certe notti). Ama, a prescindere. Cerca indizi, scava, si immerge in ricordi che salva dall’oblio. Prosegue indomito nella sua personalissima lotta all’entropia dei sentimenti, alla corrosione di ogni cuore che batte. È meticoloso, preciso, sfiora l’ossessione, poi ci entra dentro, si lascia prendere, è già preso, è troppo tardi, è sempre presto, quanti per sempre ha visto estinguere. John vive in una casa piccola, ordinata, che sa di bianco. Ripete gesti, dà forma ai suoi giorni attraverso la devozione al dio degli attimi che non possono essere che perduti. Si ferma spesso e non finisce mai, come la goccia che scava la roccia. Riflette, in quanto specchio. Assapora le ore che hanno smesso di esistere o che non sono mai nate, sa che il tempo è una bugia. Cerca senza tregua persone che non conosce, e non lo fa per motivi professionali: va oltre. Lui è quel poeta, lui è quella notte. Il motivo che lo spinge, che lo muove e lo tormenta è tanto piccolo quanto inimmaginabile: un devastante amore per la vita, qualunque essa sia. Non capiremo mai completamente cosa si agita sul fondo di un cuore come il suo. Possiamo solo sederci su una panchina qualunque di un parco qualsiasi e osservare. Allora, forse, uno sconosciuto, un passo, un gatto, un albero con incisioni di promesse. John vive con un’intensità che non conosco, che non conoscerò mai, su frequenze che posso a stento immaginare. Si muove lento, aspetta, cura la morte, mangia polvere e nebbia così che un raggio di luce nuova possa illuminare un volto, una mano, un sorriso che non si può vedere. Lui appartiene a quella invisibile categoria di eroi che non possono essere che sconosciuti. È un uomo buono. Osserva. Inventa sfumature di vite, raccoglie particolari, ricama dettagli di esistenze e di giorni. John May è un uomo speciale.
Un giorno come un altro. Una mattina di foglie. Va al lavoro, entra nel suo ufficio, un buco bianco gravido di ordine, di cataloghi, di penne a sfera, di parole cariche di mondo. È un funzionario comunale, eppure sorride (senza labbra, magari, sorride con lo sguardo, con un gesto, come quello di non agganciare il telefono, quello di continuare a cercare). Ci sono tante vite nei suoi quaderni. Tra le righe vivono gli infiniti che noi abbiamo abbandonato. John raccoglie infinite morti, dispensa interminabili vite. Si fa carico di tutti i nulla che trova, componendo così il suo mosaico di inesistenza. Una molta solitudine.
Il mondo ci scivola addosso, da sempre. La vita è un insieme di eventi che accadono agli altri. Danziamo bendati sulla bocca del cannone. Ma esistono poeti che sono poesia, esistono notti fatte di ponti. Esiste John May. Quando gli comunicano che il suo ufficio, a causa della crisi economica, sta per essere chiuso, lui tace. È un silenzio soffice, non cattivo, come quello di chi si lancia da un balcone e precipita con lo sguardo rivolto verso il cielo. «Sei lento» gli dicono. Ma è la goccia d’acqua che vince la roccia. «Prendila come una nuova occasione». È la roccia che si frantuma a colpi di minuscole eternità. John convince il capo a concedergli qualche giorno in modo da poter portare a termine il suo ultimo caso, quello di un alcolizzato morto in totale solitudine a pochi passi da casa sua. Il suo nome è Billy Stoke.
(Inizia la pioggia. Gli universi nascosti in scatole vuote. Le rincorse senza tempo, dentro ogni istante possibile. L’alternarsi delle ripetizioni. Un andare appena nato)
Il lavoro di John consiste nel cercare indizi, nell’indagare l’assenza, nell’ispezionare sfumature. Un frugare tra oggetti e vecchie storie, un’immersione nel tempo, nel senso di abbandono, di petali in un vento di plastica. Le cose, qualunque ne sia la natura, esistono nella misura in cui c’è qualcuno che crede in esse. Vale anche per le persone. Quando muore chi muore nella più completa solitudine? Parlo di quell’isolamento fatto di folle indemoniate di angeli che ti mangiano il cuore, parlo di ricordi. Di sale d’attesa (ma su ferite che non possono aspettare). La solitudine è una metastasi che corrode i colori. È un mostro famelico affamato di fiori, di occhi, di entusiasmo. Ognuno muore solo, direbbe Hans Fallada. Ognuno muore sole, direbbe una stella. Allora si finisce per credere alla vita, alla sua bellezza incompiuta, e innalziamo altari al dio del futuro a ogni costo, sacrificando attimi, amori, possibilità. Le stesse cose che John May trova a casa di Billy Stoke. Sotto strati di polvere, sotto stati di assedio, intorno a raffiche di oblio, dentro nuvole di memoria, fuori da ogni attenzione, oltre tutti gli intenti. La foto di una ragazza, per esempio.
(Continua la pioggia. Gli universi prigionieri di scatole vuote. Il tempo delle rincorse, entro in ogni istante possibile. La ripetizione delle alternanze. Un andare che sfiorisce)
Cercare indizi che conducano a parenti in vita. Lo fa da anni, da sempre. Spesso non esistono, spesso li trova ma non ne vogliono sapere niente. John si prende cura di tutti, di ciascuno di loro: si interessa della sepoltura, ne scrive il ricordo, e alla fine è l’unico a presenziare ai funerali. Ri-costruisce. Conserva le loro foto nel suo album, sono l’unica famiglia che ha. Anime morte. Assenze. Sconosciuti ai quali ha donato momenti, eternità, attenzione, lacrime, tentativi, parole. C’era una signora che viveva sola con i suoi gatti. Un ragazzo che indossava una maglia colorata. Un anziano signore che non aveva niente. I loro ricordi sono i suoi. La sua vita è vissuta dagli altri, ma attraverso un atto di pura generosità, non di rinuncia (questa appartiene a noi). John non possiede foto di se stesso, non ci sono immagini che lo ritraggono in alcuna circostanza o situazione della sua vita. Non ci sono tracce della sua esistenza, almeno non in questo senso. Come un angelo.
La ragazza della fotografia è Kelly, la figlia di Billy Stoke. Le foto sono sempre spaventose. Ci ricordano che il tempo esiste, e sta passando. Le foto sono sempre bellissime. Ci ricordano che la felicità esiste, e può tornare. Sono la prova della nostra esistenza, la testimonianza visiva del nostro passaggio sulla terra, la nostra eco, il segno del nostro essere stati e aver avuto, la nostra confessione. È per questo che i replicanti di Blade runner sono così fortemente attaccati alle loro fotografie, seppur consapevoli che rappresentano dei ricordi fittizi: la loro esistenza crea quel simulacro di umanità che da sempre desiderano. Ed è così per tutti noi. La vita è narrazione. Individuale, collettiva, lineare, contraddittoria, inventata, sporca, felice, tiepida, appena, altra, piccola, incompiuta, inevitabile, perfetta. Billy Stoke non è più una storia. È un pallido frammento di un ricordo mai vissuto. La solitudine ha sempre fame, non lascia briciole. Prende tutto, perché non si tratta di una solitudine fisica, ma emotiva, metafisica, trascendente. Instancabile. Allora John si immerge nella vita di Stoke, ne cerca gli amici e li conosce, ne conosce la vita e la cerca. Percorre il paese in lungo e in largo per rintracciare amici e parenti, in modo che il suo funerale non sia un’altra cerimonia senza nessuno. E poi incontra lei, Kelly.
(Finisce la pioggia. Gli universi che sono scatole vuote. La rincorsa del tempo, spento in ogni istante possibile. La ripetizione che altera. Un andare andato via)
Dalla finestra, scostando le tende, John osserva quella della casa di Billy. È il suo doppio, il suo specchio. La contaminazione arriva inesorabile, così come lo scambio di ruoli. Influenzato dalla storia di Stoke, scoprendone gli aspetti e le peculiarità, John inizia a compiere piccoli variazioni comportamentali. Incontra le persone che lo hanno conosciuto, e in qualche modo amato. Parla, tace, ascolta, prende, disegna pensieri di nuvole bianche su cieli sconfinati. Dal canto suo, John dona a Stoke la sua sepoltura, lo spazio al cimitero che aveva prenotato per se stesso, e gli passerà i legami umani ripresi e ricostruiti nella sua ricerca, nel suo viaggio. Donare il poi: non l’ha mai fatto nessuno, non così. John May è un uomo speciale.
(Un andare andato via)
Lei è di spalle. Lui ha viaggiato tanto. La notizia della morte del padre si insinua nella sua mente, un bruco invisibile tra le pieghe del cervello. Era morto da molto prima, per lei. Eppure i pensieri, i ricordi, i forse e tutti i se, le variabili sconosciute, le ipotesi impreviste, le opportunità e quella volta in cui, le storie incompiute, momenti di momenti, quei sorrisi, quella disperazione, le volte morte, i parassiti dell’abitare la vita, ogni giorno, quella volta che. Vanno a casa sua. Movimenti lenti, parole tiepide (di quel tepore degli abbracci immaginati, non di girasoli all’ombra). Libri come gamba di una poltrona. Istanti e istantanee. Il tradimento delle immagini. Questa non è una poesia. «Avrei voluto…»
Kelly. Si salutano sulla porta, distanti, vicini. Il cielo è così sereno.
(Un’altra pioggia. I multiversi che non stanno in nessuna scatola. Il tempo rincorso trascorso percorso morso, fatto d’istanti distanti. La ripetizione: l’alternanza. Un andare che forse)
È quella notte, quel poeta sul ponte. John May è una luce di neve, e in quanto tale invisibile, inosservabile. Nessuno guarda il sole. Ma lui, instancabile, continua a dare, insiste a donare luce, aurore, tramonti, vita. E poi. Bere sui gradini, condividere il bruciare, assaporare il tutto. Lasciarsi prendere, prendere, prendersi, perdersi per dirsi e per darsi. Fissare il vuoto con uno sguardo carico di spilli, essere il bambino con i chiodi negli occhi. Il cielo è così sereno. I treni dentro i viaggi, la poetica dei gesti involuti, le esitazioni che si fanno misura del tempo. La disperazione della dolcezza. Un andare che non può finire.
Still life è un film prezioso, una poesia in fotogrammi. Devastante, dolce, blu, incontenibile, bellissimo. Inquadrature perfette, cura dei particolari e un’attenzione al dettaglio precise, incantevoli. Eddie Marsan è impeccabile nella sua interpretazione. Perfetto, direi. E poi c’è lei, Rachel Portman, che contorna il tutto con musiche meravigliose. Still life. Natura morta. Ancora vita. Una natura morta ancora viva. Un vita morta in natura. Questo film è un canto di dolcezza disperata, di versi in continuo divenire, di fiumi in costante piena; è la celebrazione dell’attimo, la coltivazione dell’assenza, che resta la misura del nostro essere nel mondo. Still life. Pura vita. E allora pensare. Vivere, essere. Desideri, confusione, le piccole cose. Saremmo forse più soli senza la nostra solitudine. Saremmo forse più soli se imparassimo a splendere di luci non nostre. Mi sono sentito vissuto, mi sono sentito preso, perso, andato, verbo all’infinito. È questo l’effetto che questo film ha avuto su di me. Una luminosità di ombre che non smettono mai di farsi specchio. E non ho detto una parola e ho cantato e ho avuto paura e mi sono sentito al sicuro. Mi sono chiesto: ho mai amato così disperatamente qualcosa? Sono capace di amare fino a questo punto? La vita, la poesia, me stesso, il piacere, le ossessioni. Vorrei essere quel poeta, vorrei essere quella notte. Ma sono un insetto impaurito su una foglia stanca immersa nel vento. John, ovunque tu sia, aiutami. Portami a casa.