1 Recensione de I testamenti, di Margaret Atwood, 2019
Dopo più di 30 anni e diversi adattamenti cinematografici e televisivi, Margaret Atwood ci riporta a Gilead, la bellicosa teocrazia totalitaria che ha soppiantato il governo statunitense nel suo romanzo distopico Il racconto dell’Ancella, pubblicato nel 1985.
Finalmente sappiamo cosa ne è stato di OfFred, l’ancella che abbiamo lasciato chiusa in un furgone senza alcuna speranza di sopravvivenza, ma soprattutto delle sue figlie: quella che le è stata strappata dalle braccia durante la nascita del governo e quella che è stata costretta a concepire sottoforma di utero su due gambe. Torniamo al mondo che reputa le donne come puri ornamenti o oggetti, e gli uomini dei mostri schiavi delle proprie pulsioni che devono essere represse per garantire una convivenza civile.
Questo mondo di donne, raccontato da donne, basato sulle donne, vede gli uomini in ruoli che sembrano marginali nonostante siano loro a ricoprire incarichi di potere; i maschi vengono principalmente considerati un’infestazione dalle due abitanti di Gilead (Agnes e Zia Lydia), il cui Point Of View è necessario per comprendere, finalmente, come delle donne abbiano potuto sottostare ad un regime simile.
La zia Lydia torna sfondando la quarta parete da Il racconto dell’Ancella; veniamo a conoscenza della sua storia, del modo in cui è stata piegata (ma mai spezzata) e dei motivi che la spingono ad andare avanti in questa crociata contro l’immoralità e la libertà, mostrandoci un lato della propria persona impensabile per chi ha letto il primo romanzo.
Agnes è più facile da interpretare: non è affatto stupida, quindi pur essendo cresciuta a Gilead si rende conto di quanto le potenzialità femminili vengano affogate nella fede che nasconde un bisogno politico di soverchiare anche i propri abitanti, per mantenere una parvenza di ordine. Questa consapevolezza la spingerà in seguito ad agire come vedremo, e come lei stessa annuncia più volte durante la testimonianza.
Nicole è un punto di vista indispensabile: ci mostra come Gilead viene vista dall’esterno, in particolare dal Mayday e dallo stato più vicino ed utile, il Canada. Abbiamo un momento di respiro con la nostra normale quotidianità, poiché il mondo esterno è rimasto immutato, una sedicenne può continuare ad indossare leggins e dire parolacce.
Grazie alle testimonianze incrociate di queste tre donne scopriamo che questo paventato ordine non è altro che un velo di Maya, una labile apparenza data dall’impossibilità di ricevere notizie e un’istruzione adeguata all’interno del regime, mentre all’esterno (parliamo del Canada) è chiaro che l’unico motivo per cui Gilead ha resistito tanti anni è solo la paura dei diversi paesi per gli armamenti di quelli che un tempo erano gli Stati Uniti d’America.
Non avendo più l’obbligo di illustrare il mondo ormai familiare al lettore (ma anche probabilmente allo spettatore dell’ormai famosissima serie The Handmaid’s tale), la Atwood ha più libertà nel caratterizzare le tre narratrici e nel raccontare gli eventi di vent’anni successivi al romanzo principale.
La storia si arricchisce di particolari e abbiamo una conclusione degna: il modo in cui Gilead ha iniziato a cadere, molto più importante dei motivi, che ci erano già ben noti.
Un seguito che vale la pena conoscere, lo stile inconfondibile della Atwood non si è logorato con l’età, semmai risalta sempre più la bravura dell’autrice e la sua capacità di farci immergere totalmente in questa distopia ucronica.