1 recensione de L’uomo che uccise Hitler e poi il Bigfoot
Lo scorso anno nelle sale cinematografiche statunitensi è approdato un film dal titolo bizzarro, un ibrido tra storico, azione e fantasy in grado di incuriosire senza saper spiegare bene perché, forse solo per vedere di cosa si tratta. La pellicola costituisce il secondo lavoro del regista Robert D. Krzykowski e ha come protagonista Calvin Barr, un discreto ed efficientissimo uomo dell’esercito a cui viene affidata la missione del secolo, uccidere Adolf Hitler e mettere fine alla Seconda Guerra Mondiale. Il Calvin del passato è interpretato da Aidan Turner, più che credibile in un ruolo che riveste con facilità, con la giusta dose tra fredda calma e calorosa emozione di un uomo d’altri tempi che ha interpretato anche in Poldark. Eppure il destino di Calvin non si esaurisce qui, c’è infatti la sua controparte impersonata da Sam Elliot, impeccabile nella sua pacata malinconia che sa andare oltre le parole, comunicare con uno sguardo che, seppur portatore di un diverso tipo di magnetismo, condivide con la sua versione giovanile. Se la missione del soldato era uccidere Hitler, quale sarà quella per cui l’FBI, una sera come tante altre, bussa alla porta del pensionato? Se vuoi scoprire altro ti consiglio di continuare la lettura di 1 recensione de L’uomo che uccise Hitler e poi il Bigfoot.
Ecco che il titolo scelto da Krzykowski viene chiarito al 100%: il governo degli Stati Uniti d’America intende richiamare alle armi il veterano Calvin Barr per un’ultima missione, uccidere il Bigfoot.
So che la prima reazione potrebbe essere storcere il naso, stoppare il film con un colpo secco o accusare il regista di aver fatto una grande sciocchezza, ma se si ha la pazienza di andare avanti si scopre che dietro questa scelta apparentemente insensata o disperata si nasconde ben altro, qualcosa di “profetico” per i tempi che stiamo vivendo…
La scelta degli agenti cade su Calvin non solo perché lui in passato è riuscito nell’impresa più leggendaria ed eroica del secolo, anche se segreta, ma in quanto dotato di una particolare immunità genetica in comune solo con un’altra manciata di persone, persone non più “disponibili”, a quanto pare. Questo specifico Bigfoot, infatti, non è solo la leggendaria creatura dall’aspetto scimmiesco e primitivo che vive nelle foreste dell’America Settentrionale, ma il portatore di uno sconosciuto virus influenzale che dagli animali rischia di passare all’uomo con conseguenze apocalittiche per l’intera umanità. È compito degli immuni, o meglio dell’unico rimasto, provare a eliminare la creatura.
Non starò qui a raccontarvi il finale o a dirvi se il titolo è portatore sano di spoiler, ma cogliere l’occasione per parlare di un altro messaggio “subliminale” offerto dal film e che, a oggi, è particolarmente scottante: la paura del diverso. Sappiamo bene quanto la paura costituisca una sorta di salvavita per l’uomo, un allarme pronto a scattare al momento giusto, ma di questo potere il mondo sta facendo un abuso. È, infatti, innegabile che la paura faccia uscire anche i lati più bassi e infimi dell’uomo e, se alimentata da pregiudizi, preconcetti, da tutto ciò che inizia per “pre” e si nutre di assiomi rifiutando il confronto, in tal caso diventa fonte di errori e brutture.
Credete che l’uomo che ha ucciso Hitler e a cui viene chiesto di eliminare il Bigfoot sia fiero del suo passato da “eroe di guerra”? Che si vanti dell’azione gloriosa che ha posto fine ai piani diabolici di un piccolo Mr. Hyde baffuto? No, tutt’altro.
Era solo un uomo, dice Colin, e uccidendolo ho privato un corpo della vita, non l’ideologia della sua linfa. Ho eseguito gli ordini da soldato, ma non ne sono lieto. Nella scena madre si osserva un’impassibilità totale, uno sguardo gelido, privo d’espressione, ma è tutta apparenza: l’uomo scalpita nel corpo del soldato.
Questo stesso atteggiamento accompagna Colin nella sua seconda missione: accetta di compierla perché è un militare, oltre che un cittadino degli Stati Uniti d’America, ma vorrebbe evitarlo. Nello scontro tra lui e la creatura la pietà sprizza da tutti i pori così come le scuse che, in modo del tutto inaspettato, escono dalla bocca del cacciatore Colin. Potrà sembrare assurdo, ma non del tutto.
Colin non ha paura del “mostro”, come non ne aveva di quello incontrato in passato, e questo gli permette di affrontarlo alla pari, con umanità, al contrario di solitudine, rimorsi e rimpianti che lo accompagnano da tutta la vita.
Per eseguire gli ordini ha perso l’amore della sua vita, ha a mala pena sviluppato un rapporto col fratello, e l’unica presenza che lo accompagna e un fidato Golden Retriever. Chissà che non sia proprio la lotta con creatura primitiva a farlo rinascere.
Una pellicola malinconica quanto il suo protagonista, originale e piacevole. Una storia-monito da guardare se avete voglia di riscoprire il volto sano della paura.