10 poesie di, da e per Roberto Baggio

18-2-2017

Tra le pagine delle Elegie duinesi c’è un verso su un angelo. Un essere stupendo e terribile, che appartiene a un mondo altro, intento a celebrare l’esistenza in ogni modo possibile. Un eroe debole e invincibile, per il quale la morte è un pretesto per essere ancora, perché nasce di nuovo. E ancora. Il sole sorge nel vento, tutto diventa specchio. La luce si rifrange sui suoi occhi e invade qualsiasi cosa. Rainer Maria Rilke parla di Roberto Baggio. Non voglio esagerare, oppure sì, non importa. Sui campi di calcio c’è stato un angelo che volava sfiorando i fili d’erba, incantando tutti, celebrando il possibile attraverso la musica dei suoi piedi. Parlare di Baggio significa parlare di poesia. Perché lui è stato metafora di se stesso, un’astrazione del pallone che rotola, una concretizzazione del bello e del sublime, una manifestazione straordinaria del processo di divinizzazione dell’attimo. Per me parlare di Roberto Baggio significa guardare negli occhi il bambino che ero e che spero di diventare. Sui campi di calcio lui è stato una delle più meravigliose espressioni della poesia dell’uomo; certo, ce ne sono stati altri prima di lui, ce ne sono stati altri dopo lui, altri ne verranno, alcuni non sono mai stati conosciuti, ma Roberto Baggio è la siepe di cui canta Leopardi (perché ogni poesia esclude e invita allo stesso tempo); è l’albatro descritto da Baudelaire (perché è un essere che abita due mondi, per natura e per necessità, ma soltanto in uno la sua bellezza può dispiegarsi in tutto il suo splendore); è il fantasma evocato da Sylvia Plath (perché l’assenza è la sostanza del divenire poetico). Parlare di Roberto Baggio vuol dire innamorarsi di se stessi, perché ci si ritrova a sorridere, ci si sente vivi, ma soprattutto vissuti, allora si riscopre la capacità di essere se stessi nella complessità dei sentimenti di cui si è capaci. È stato l’atleta che tutti i bambini sognano di diventare quando giocano a pallone nel parco. È stato un protagonista continuo, ovunque sia stato (e anche in altri luoghi), una fenice che è risorta continuamente dalle ceneri dell’altare sul quale lo avevano sacrificato. Amo il modo in cui lo ha definito Luigi Garlando: «è Prometeo che ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini e dagli dei è stato punito». La sua luce ha valicato i confini del calcio e dello sport, illumina molti cieli. Da Caldogno al Giappone, Baggio ha fatto felice tutti. E per tutti intendo i tifosi, la gente, coloro che danno senso al calcio, che non è classiche né vittorie, ma emozione e bellezza. Ovvero poesia. E Baggio ne è stato un magnifico interprete. Ha saputo farsi carico di destini beffardi, di sciarpe cadute al suolo, di rigori sbagliati, di ginocchia rotte, di incomprensioni studiate a tavolino da chi era incapace di sostenerne la leggerezza. Ha fatto ciò che Auden chiede al poeta: accogliere qualsiasi cosa e celebrarne l’essenza, per il fatto stesso che esiste e che accade. E come suggerisce Kipling, ha trattato ogni cosa con lo stesso entusiasmo, con lo stesso dolore, con la stessa profondità, la stessa impercettibile gioia. Lucio Dalla, cantando di Baggio, ha detto che lui è «una nevicata che scende giù da una porta aperta nel cielo», e aveva ragione; è un buco da cui filtra la luce dell’infinito, parafrasando Confucio. Infinito, appunto: quello che Sartre, parlando dell’opera baudelairiana, definisce come ciò che semplicemente non può finire: ecco Roberto Baggio, ecco ciò che ha fatto sui campi di calcio, la scia incancellabile dei suoi passi. Sembrerà forse strano che in uno scritto su Baggio non si citino gol o azioni memorabili (e ce ne sono una miriade), ma la poesia non cerca il particolare: persegue l’universale (anche se non fa altro che esprimersi per dettagli individuali), la poesia non cerca concretezza: volge all’astrazione (e lo fa mediante atti di immaginazione, di metonimica emozione e di cuori che si frangono in battiti altri e ulteriori). Ed è per questo che Roberto Baggio è il nulla di cui canta Alda Merini (perché, come ogni poesia, il suo calcio è misura del tempo e dello spazio, e non conosce confini); è la forma di cui ci parla Gottfried Benn (perché il calcio di Baggio non esiste: non ha nessun contenuto, è pura forma, è acqua, è aria, non ha vinto quasi nulla, la sua eco pervaderà per sempre ogni traiettoria del dio pallone); è il non so di Wislawa Szymborska (il dubbio, i se e i ma, le incertezza, il non ancora, l’avrei potuto, i magari e i nonostante, i per fortuna e i malgrado, il troppo presto e il troppo tardi: ovvero tutte le dimensioni della significazione poetica dell’esistere). Il calcio di Roberto Baggio, come un verso di Pessoa, non fa che dire a chi lo ama: «andiamo via creatura mia, via verso l’altrove». Questo è ciò che i suoi piedi hanno cantato negli anni. Ed è questo che io sento vibrare nelle tempie ogni volta che ne ammiro la bellezza. Andiamo via verso l’altrove. Perché ogni poesia è al tempo stesso l’attimo e il tempo stesso, è un luogo che contiene tutti i luoghi, un multiverso di universi di versi, è inevitabilmente altro, è costantemente oltre, tende continuamente a straripare, alla deriva, all’infinito.

Oggi compi cinquant’anni, Roberto. Buon compleanno. Ti voglio bene.

 

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Scrivo, cerco, abito esistenze. Ho trovato nella sociologia una dimensione che posso chiamare casa. Mi affascinano la potenza degli atti creativi, le esplosioni di idee, la dialettica esistente tra il divenire sociale e i processi di costruzione identitaria, tutte le assenze, qualsiasi cosa sia altro. Allora mi lascio scrivere, cercare, abitare.