7 considerazioni sull’essere donna e sui discorsi intorno al mondo femminile

 

Oggi, 25 novembre, è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Si dirà di tutto, si faranno infiniti discorsi, parlerà chiunque, ma non si dirà niente di nuovo, e soprattutto niente di buono. Perché, come spesso accade, ci si approccia al mondo e all’insieme di eventi che definiscono l’esistenza senza alcun presupposto poetico, ovvero senza alcune capacità di trascendere il reale, di vedere l’invisibile, di cogliere la globalità della vita nella parzialità dell’individuo. Parlare della donna e delle questioni del mondo femminile, pertanto, risulta spesso un mero esercizio di stile, una confezione sul vuoto; in questa seda voglio provare a discutere di questo argomento assumendo quella prospettiva poetica che considero essere l’unica possibile (e che non riesco a non fare mia). Ecco dunque le mie 7 considerazioni sull’essere donna e sui discorsi intorno al mondo femminile, che potranno forse apparire complicate, ideali o provocatorie e inattuabili, ma che a mio avviso costituiscono l’humus del terreno in cui edificare la bellezza dell’essere umani.

 

 

1- Lo smalto sul nulla. Ovvero la donna non è un panda: non va difesa

Avvinte, vinte, cinte, mura, chiuse in se stesse, in se stessi facendo qualcos’altro forse a quest’ora non sarei morto. È questo il punto: e basta! Basta con il solito sole che sorge sempre e solo al mattino: c’è bisogno di luce in piena notte. Abbiamo costruito la gabbia nella quale asfissiano le nostre pulsazioni cardiache: è il torace del mondo che occlude il cuore, non lo protegge. Non se ne esce, anche se ogni porta è aperta. Siamo diventati ciechi. O forse siamo solo incapaci di cogliere la differenza tra la soglia di una porta e la voglia di una morta. Difendere, difendere, difendere. La protezione non serve se vuoi liberare. E liberare significa entrare nel bosco (del mondo, del tempo, di se stessi, degli altri), portare chi ami nel buio, nelle tenebre, lasciarlo lì, e lasciare che da solo trovi la strada che guida verso casa. È nella selva oscura che inizia ogni processo di liberazione/costruzione dell’anima. Dante lo sapeva (o lo sognava: è la stessa cosa) e si è lasciato diventare. Se avesse voluto difendersi non avrebbe varcato nessuna soglia. E non sarebbe morto e non sarebbe nato. Ciò vale per ognuno di noi: difendere e proteggere sono verbi che vanno bene per i panda, per i resti di un plesiosauro, per la collezioni di vinili di tuo nonno, per l’orologio che ti hanno regalato i tuoi nipoti, ma non va bene per l’individuo – qui inteso nella sua complessità di essere senziente. Attaccare, distruggere, creare, nascere: questi sono i verbi che si confanno all’agire della nostra specie, quelli che maggiormente definiscono la portata e il sostrato del nostro abitare sociale. Mi spiego peggio: difendere la donna (in quanto tale) vuol dire, nella migliore delle ipotesi, costruire un recinto intorno alla sua dimensione e sedersi col fucile accanto alla staccionata pronti a sparare a ogni lupo che tenta di avvicinarsi. Ma la donna non va difesa. La logica della protezione implica stabilità (di ruoli, di modalità, di forme, ecc.) e la stabilità porta inevitabilmente all’atrofia: ed è questo lo stato in cui adesso ci troviamo, o in cui ci stiamo rapidamente avviando. Nell’oscurità della selva, invece, non puoi permetterti di restare immobile, devi muoverti, devi creare, devi imparare a nascere, devi sorgere. Ed è per questo che dobbiamo imparare a eclissare certe convinzioni tumorali, troppa luce acceca: c’è bisogno di buio in pieno giorno.

 

 

2- Naturalmente umani. Ovvero la violenza delle differenze e le differenze della violenza

Sui temi delle differenze di genere e, ancor di più, su quelli della violenza di genere se ne parla e se ne dice fin troppo, quasi sempre in toni sgarbati e con contenuti impalpabili. Sono sicuramente tematiche delicate, complesse, per molti versi ambigue e contraddittorie, ma, come sovente accade per le tematiche di tale natura, esse sono anche “semplici”, accessibili da chiunque e problematizzabili in qualunque circostanza. Quello della violenza di genere appartiene a quest’ordine di problematiche. La violenza di un uomo su una donna non è mai la violenza di un uomo su una donna: quando l’identità di genere è ciò che determina e sostanzia l’atto violento allora non è possibile riassumere il delitto nei parametri a cui siamo soliti ricorrere. La violenza ai danni di una donna in quanto donna è un graffio che lacera la sensibilità di ogni individuo. È l’estremizzazione brutale di un modello culturale che fa del “dominio maschile” (per usare un’espressione di Bourdieu) il suo profilo identitario. Tuttavia, parlare delle differenza tra i sessi, qualunque posizione si voglia assumere in merito (che siano naturali e immutabili o che siano mere costruzioni culturali), risulta essere un mero esercizio oratorio se non si assume e si fa propria la dimensione del tutto umana del nostro essere. Voglio dire, esistono immutabili differenze biologiche tra i sessi così come esistono necessarie differenze culturali: ciò è giusto, è fondamentale dal punto di vista evolutivo, meramente umano; l’errore sistematico in cui spesso si cade è quello di identificare questi dati come distanti o, peggio ancora, come inesistenti. Queste sono le differenze della violenza: incarnare una visione (del mondo, dell’essere umano) che confonde l’oggetto di ricerca con lo strumento, l’orizzonte con lo sguardo. Spero di essere stato abbastanza chiaroscuro.

Sull’altro versante della questione (che poi è sempre lo stesso) troviamo il tema della violenza di genere. Come dicevo prima, la violenza ai danni di una donna in quanto donna è uno squarcio che fa sanguinare il cuore di ogni individuo. Ma la stessa cosa si può dire della violenza ai danni di qualunque categoria di persone colpite per un loro peculiare tratto distintivo (l’essere nero, cinese, immigrato, napoletano, veronese, interista, juventino, omosessuale, calvo, biondo, grasso, zoppo, nomade, lituano, nato nel mese di febbraio, amante dei libri rosa, ecc.). Il femminicidio, nel nostro caso specifico, si rifà a questa logica: perché lo stupro – che è l’eco più agghiacciante della violenza di genere – non è come molto spesso si pensa l’espressione di un desiderio sessuale impulsivo e sfrenato, esso è un delitto di violenza, non di libidine, un rituale di potere e di umiliazione. Senza entrare in questioni particolari, benché ce ne sia un’infinità, e a prescindere dal piano giuridico e legislativo del fenomeno, credo che il luogo sul quale muoversi sia inevitabilmente quello della cultura (intesa nella sua accezione antropologica). Perché finché saremo incapaci di cogliere le impercettibili similitudini della vita che nasce continueremo a subire le cancerogene differenze della violenza che uccide.

 

 

3- Generare generazioni. Ovvero il femminismo è una cosa da maschi

Il principale ostacolo e il più grande problema di ogni gruppo sociale è il gruppo stesso. Questa affermazione si basa sull’incapacità di ognuno di noi di essere ciascuno di noi. Il sonno della poesia genera la ragione dei mostri. Cioè: va benissimo manifestare, protestare, scendere in piazza: ma se lo fanno le donne, a cosa serve? Sono gli uomini che devono scendere in piazza a manifestare la propria dolcezza, a gridare la loro diversità dagli altri uomini violenti e assassini: protestare contro loro, farli sentire minoranza (minorata e minima); non più (soltanto) solidarietà e vicinanza alle donne (a che serve? Bisogna entrare nel bosco, superare le soglie…): bisogna distruggere il cancro dell’identità a oltranza, della convinzione che esista una sola prospettiva, una sola dimensione, e che io sono soltanto io e non anche donna, bambino, malato terminale, omosessuale, operario, profugo, povero, animale e bicchiere scheggiato. Il femminismo è una cosa da maschi: bisogna tracimare, esplodere il possibile, inglobare l’universo e sproporzionarne i confini, di continuo. Bisogna ridimensionarsi: trovare nuove dimensioni, perché ce lo chiede la molteplicità dell’io, ce lo impone la voce mai doma della poesia. Bisogna generare generazioni: generare geni e reazioni. Geni, e dunque una rivoluzione biologia, genetica, del nostro apparato cognitivo: mutare il pensiero, il sistema cerebrale che pervade il mondo che siamo e che creiamo. Reazioni, e quindi muoversi, camminare, non restare fermi tra le fitte trame del bosco: espandere i confini della propria identità, individuale e sociale, fino a capire che ognuno di noi è ciascuno di noi. Questa logica vale (o dovrebbe valere) sempre, in ogni circostanza: a manifestare per i diritti delle coppie omosessuali dovrebbero andarci le famiglie eterosessuali con tanto di figli al seguito; a protestare per le condizioni dei lavoratori in nero dovrebbero andarci imprenditori, manager, politici; e mille esempi ancora. Ma siamo incapaci di essere altro da noi. Uccidiamo la metafora, e questo porta all’estinzione dell’astrazione, e quindi della poesia. Bisogna cioè fuggire la logica per cui “io l’ho vissuto/lo vivo quindi so cosa significa” e “è successo anche a me quindi ti capisco” o al contrario “tu non l’hai vissuto quindi non puoi capire”. Ma che cazzo significa? Stiamo scherzando? È esattamente il contrario: in quanto essere umano, ogni individuo è ciascun altro, dunque io non solo posso capire il dolore di una madre che perde un figlio, la disperazione di un uomo che ha perso tutto per un terremoto, la gioia di una coppia che aspetta il primo figlio, la devastazione a cui va incontro una donna stuprata o l’incommensurabile senso di perdita di un malato terminale: ma devo capirlo, devo esserlo. Qualcuno obietterà che non è facile, che non è “naturale”, non è plausibile, e invece sono profondamente convinto del contrario: è poetico, e dunque anche tremendamente complesso e articolato, ma è alla portata di tutti. C’è quindi bisogno di comprendere: capire e racchiudere. Essere e tessere. Diventare e diventarsi. Perché la metamorfosi è la sola possibilità che abbiamo per riconoscere la nostra vera immagine, in questo labirintico gioco di specchi che è la vita.

 

 

4- Le parole delle armi e le armi delle parole. Ovvero parlare di violenza sulle donne è perpetuare la violenza sulle donne

Qualunque iniziativa contro la violenza sulle donne ha sempre come tema centrale la violenza sulle donne. Ho sempre faticato a comprendere questo aspetto. Io credo che si dovrebbe prendere atto dell’urgenza e dell’importanza di cambiare prospettiva: invece di parlare di violenza sulle donne dovremmo iniziare a parlare di amore per le donne. Da violenza a amore. Mutamento di orizzonte. Allora avremo “la giornata per l’amore della donna”, i cui toni saranno certamente più lievi e allegri di quelli della giornata contro la violenza sulle donne, il cui tema resta la violenza, non l’amore o il rispetto (o quanto meno ne sono subordinati). Quello che dico può apparire un semplice capriccio linguistico, una mera questione semantica o una sciocca provocazione, invece è una scelta precisa e netta, una ponderata valutazione dello sguardo che voglio far indossare ai miei occhi. Perché c’è bisogno, a mio avviso, di cominciare a pensare e, soprattutto, a coltivare un mondo, e un sistema sociale, in cui ci sia la piena consapevolezza della necessità di annientare il cancro del così è, del così è sempre stato, di distruggere la metastasi culturale dell’io non ho fatto niente, del non sono tutti così, andando a caccia dei però e dei ma, facendo scempio dei loro cadaveri e lasciando scie di devastazione poetica. Solo così si può sperare di desertificare il fin troppo fertile campo del banale: necessitiamo semi di metafora, di alterità, di oscurità luminosa.

 

 

5- Imparare a nascere. Ovvero gli uomini sono donne che non ce l’hanno fatta

(Il mondo ha estremo bisogno della poetica di Groucho Marx).

Esistono innumerevoli tesi, più o meno serie, che di volta in volta sostengono la superiorità della donna o dell’uomo, facendo leva quasi sempre su luoghi comuni, stereotipi e falsi miti. Le motivazioni alla base di queste tesi fanno leva sulla volontà di nobilitare il sesso femminile, equiparandolo a quello maschile: ma non ha senso. Tentativi nobilitanti non sono necessari, la logica dei disprezzi non si combatte con il conformismo: è lo stesso terreno. Non so se mi spiego. I discorsi tesi a nobilitare la donna, la sua condizione e la sua dimensione sociale, semplicemente, non hanno senso, anzi sono deleteri: sottolineare con insistenza che il cielo è azzurro lo fa diventare opaco, sfuma inevitabilmente, e perde di significato. Invece, per quanto complesso possa essere, dobbiamo imparare a diventare cielo, ma non solo con le parole, anche con i pensieri, con gli atti, con i respiri. XX e XY: variabili di un’equazione che non ha gradi ma gradini: bisogna salire sulla scala dei sentimenti e raggiungere la bellezza che ci aspetta in cima, e che non fa altro che chiamarci, invece siamo fermi a terra e ci ubriachiamo di violenza, che resta l’orizzonte di ogni nostro sguardo. XX e XY: incognite di un’espressione facciale che facciamo di tutto perché non sorridi. Ma dobbiamo farcela a nascere, dobbiamo imparare a salire sulla scala poetica del mondo, un gradino alla volta, fino a raggiungere la totalità dell’essere che siamo e che abitiamo. E non dobbiamo avere paura di morire o perderci nel bosco: perché ogni nascita avviene tra urla, pianti e scie di sangue.

 

 

6- Madame Flaubery. Ovvero Lei sono io

Quando si parla della condizione della donna si cerca solitamente di provare a identificare la questione più “importante” relativa al mondo femminile (ammesso che sia possibile individuarne una). Il lavoro? L’istruzione? Le pari opportunità? Il sesso? La violenza di genere? Personalmente penso che il tema più importante per il mondo femminile sia il fatto che esistano (ancora) discussioni tese ad analizzare/individuare il tema più importante per il mondo femminile: finché ci incastreremo in polemiche e in dibattiti di tale natura vuol dire che il mondo in cui viviamo è sempre lo stesso. Finché saremo devoti al dio dell’indolenza e dell’apatia sociale, le parole non porteranno a nessun cambiamento, nessuna metamorfosi, nessuna nascita, e continueremo a morire a morire a ogni violenza di genere, senza mai varcare alcuna soglia, accecati dalla luce del così è, fermi nella sicurezza della radura rischiarata dalla luna, ben lontani dall’oscurità del bosco. Lo dicevo anche prima: c’è bisogno di iniziare a pensare e a coltivare un mondo, e un sistema sociale, in cui ogni uomo sia capace di pensare “lei sono io”. Come Flaubert che dice “Madame Bovary c’est moi”. Perché la parità non mi basta: voglio vincere.

 

 

7- Poesia. Ovvero l’umano

Allora diventare, all’ora diventare: ogni momento è buono per sorgere. Imparare a non essersi, indossare maschere che ci rivelano, veli che ci mascherano e scoprire così le nostre molteplici dimensioni esistenziali. Chi dice donna dice danno: voce del verbo dare, un plurale insito nel singolare evento della nascita. Danno: verbo, non sostantivo: è l’astrazione che mangia il concreto, l’evoluzione dell’umano. E quindi perdersi, ma per dirsi e per darsi: a tutti, a chiunque, senza alcuna precauzione, senza fine ma con tutti i finali, senza tempo ma con tutti i temporali. Fino a che l’uomo e la donna imparino a fare l’amore: farlo, appunto, costruendolo da zero, non accontentandosi di fare l’amore preconfezionato a cui sono abituati. Solo così si fa luce sul mondo. Sole così si fa buio sul giorno. Ed è una poesia che sta gridando nelle nostre tempie da sempre, dobbiamo imparare ad ascoltarla. Allora diventare, diventarsi, nascere, crescere, essere altro, essere se stessi negli altri. Perché, come dice Bergonzoni, se fossi donna sarei l’uomo più felice del mondo.

 

 

 

 

«Esistere è uno dei nostri limiti»

(Efraim Medina Reyes, Tecniche di masturbazione fra Batman e Robin)

 

 

 

 

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Scrivo, cerco, abito esistenze. Ho trovato nella sociologia una dimensione che posso chiamare casa. Mi affascinano la potenza degli atti creativi, le esplosioni di idee, la dialettica esistente tra il divenire sociale e i processi di costruzione identitaria, tutte le assenze, qualsiasi cosa sia altro. Allora mi lascio scrivere, cercare, abitare.